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📰 Schermi Riflessi di Armando Lostaglio: Verso la Passione UOMINI DI DIO la preghiera sullo schermo

“Gli uomini non fanno mai il male così completamente ed entusiasticamente come quando lo fanno per convinzione religiosa.” (Blaise Pascal, da Pensees, 1670).

 E’ l’incipit di un film particolarmente toccante: sbigottimento e commozione connotano la visione di Uomini di Dio (Des hommes et des dieux, 2010), per la profondità con la quale il regista francese Xavier Beauvois ha trattato il tema della fede, della morte, della coerenza contro il fanatismo. Il film si è imposto a Cannes, vincendo il Gran Prix della Giuria, e il premio per il miglior attore all’82enne Michael Lonsdale, oltre che per la fotografia. Straordinari gli interpreti (fra cui Lambert Wilson) di quei monaci benedettini che, una trentina di anni fa, si sacrificarono per la loro coerenza missionaria e si immolarono al fanatismo fondamendalista in Algeria. Il film rievoca la strage dei sette monaci cistercensi di Thibirine, sullo sfondo della guerra civile, di cui rimangono ancora dubbi sugli autori della strage. Essenziali e intense sono le inquadrature: Beauvois sceglie una linea narrativa che utilizza pochi movimenti di macchina, rallentando il tempo per accompagnare lo spettatore nella quieta vita benedettina, della preghiera e del lavoro al servizio dei poveri, in quei villaggi di sabbia. Si nota in qualche passaggio la lezione del centenario maestro portoghese Manoel De Oliveira (Porto, 11 dicembre 1908 – Porto, 2 aprile 2015) di cui il regista francese è stato assistente) per l’elogio della lentezza e per la narrazione di storie appena narrabili. E tutto mentre incombe la tragedia. E’ straordinario il rapporto antico che alimenta la vita monastica in simbiosi con la locale comunità musulmana: Vangelo e Corano in diversa ma stretta condivisione, nel rispetto di regole comuni di aiuto e di preghiera. “Siamo come uccelli sul ramo” sussurra il monaco alla donna algerina; - “No, gli uccelli siamo noi, voi il ramo su cui poggiamo” risponde. C’è spazio nel film per i movimenti quotidiani scanditi dalla povertà e dall’assistenza che i benedettini offrono nel villaggio. Elementi che un occhio ben disposto sa apprezzare, mediante la grazia e la poesia di alcune sequenze del finale di elevato valore estetico. La fotografia restituisce immagini di ispirazione caravaggesca: il chiaro e lo scuro, proprio come la vicenda narrata, che declina verso il buio. La difficoltà dell’autore si sarà concentrata probabilmente nel trovare la cifra stilistica giusta per raccontare la vita e il progressivo avvicinarsi alla morte dei monaci, facendoli restare degli uomini con le proprie paure e i propri dubbi, non trasformandoli in martiri, quali poi sarebbero divenuti. Alta scuola di cinema è il piano-sequenza, prima della fine, a tavola come in un’Ultima cena: i loro visi prima sereni e poi in lacrime per l’incombente tragedia, mentre il sottofondo è scandito dalle musiche di Tchaikovskij “Il lago dei cigni”, che meglio non poteva evocare la forza e l’inquietudine di quegli attimi. La lettera di padre Cristian, nel finale, sottintende anche un’analisi della situazione culturale e politica dell’Algeria, delle colpe dell’occidente e della Francia, con la rimozione dei propri errori del passato coloniale; ma vi è il rifiuto del martirio fine a se stesso, con l’accettazione della morte non ammantata di eroismo. Il regista mostra, nelle sequenze che precedono quelle finali, il convento imbiancato dalla neve: il gelo che cancella quel vissuto di fratellanza nel desiderio di pace. I monaci scompaiono dietro le armi nel grigio della nebbia, su un anonimo calvario, proprio come Cristo.

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