
di Vittorio Baccelli
La realtà è quello che
quando uno smette di crederci, non sparisce. (Philip K. Dick)
Di buonora sono uscito dal piccolo alloggio che
quest’anno ho preso in affitto, con me c’è Neera e non ho voluto lasciarla
andare da sola, ho deciso che d’ora in avanti la seguirò ovunque.
Sembra fatta
apposta per me, non lascerò che se ne fugga via. A piedi raggiungiamo la
piazzetta in fondo alla via ove abitiamo, la strada passa in mezzo a una serie
di villette ad un piano, garage e cantina sotto, quasi tutte uguali le une alle
altre e dipinte con colori pastello che il sole ha iniziato a sbiadire. Siamo
nella piccola piazza e attendiamo, ci siamo vestiti con jeans t-shirt, giacca a
vento e scarpe militari. Al mattino l’aria è fresca, ma poi tornerà il forte
caldo fino all’imbrunire, le escursioni termiche qui sono notevoli, ma ci si
abitua in fretta. Oggi è il primo giovedì del mese e come tutti i primi giovedì
Neera fa con gli altri questo viaggio. Il rombo d’un motore potente giunge
all’improvviso e due camion blindati entrano nella piazza, il primo lentamente
prosegue mentre il secondo si ferma per farci salire. Le pesanti porte si
chiudono dietro di noi e gli occupanti ci salutano cordialmente, sono anch’io
trattato come un vecchio amico, Neera l’aveva avvertiti della mia presenza,
chissà quali storie gli avrà raccontato! Sono tutti fin troppo cordiali e in un
primo momento mi sento un po’ imbarazzato. Lei scrive vero? Fa pure il
giornalista, ci hanno detto che è un nostro grande amico e che sostiene con
veemenza le nostre ragioni, ce ne vorrebbero tanti come lei per contrastare le
bugie che vengono scritte nei nostri confronti. Fortunatamente queste frasi
durano poco e mi schermisco sorridendo,
Neera coglie al volo il mio imbarazzo e comincia a presentarmi proprio a tutti,
ma i loro nomi sono troppi da ricordare e purtroppo mi sfuggono. Gli autobus
sono nuovamente uno dietro l’altro e proseguono veloci, dai vetri
antiproiettile scorgo gli sguardi ostili degli arabi quando attraversiamo i
loro villaggi, all’interno del bus la discussione ha trovato altri soggetti
alternativi alla mia presenza e fortunatamente mi stanno ignorando immersi in
un chiacchiericcio normale, quasi che questa fosse una vera e propria
scampagnata per ricongiungerci con vecchi amici che ci stanno aspettando. Con
loro comunque mi sento a mio agio, come se li avessi conosciuti da sempre, nel
bus il tempo scorre tranquillo, c’è un’aria di festa e di gita, la blindatura
che ci separa dalla realtà ostile rende tutti tranquilli. Dopo molte strade
asfaltate ma estremamente polverose e con un’infinità di buche giungiamo infine
a Hebron e prima ancora di scendere al nostro capolinea ci lasciamo
immediatamente conquistare dalla spiritualità che aleggia attorno a questo
luogo che fu la prima città ebraica e la prima capitale d’Israele. È la prima
volta che mi trovo in questi posti ma l’impressione che ne traggo è d’intensa
familiarità, è come se lo spirito e l’essenza d’Israele qui si concentrino.
Mentre sono immerso nei miei pensieri e assaporo questa sensazione di intimità,
usciamo tutti all’aperto e respiriamo l’aria leggera e fresca, nel bus era divenuta viziata, ma ce ne rendiamo conto
solo ora. Con Neera sottobraccio mi avvio per le stradine che si dipanano
tortuose tra le case degli ebrei, case praticamente sommerse da muraglie di
sacchetti di sabbia approntate per proteggere gli abitanti dai cecchini
palestinesi. Incontriamo per strada conoscenti di Neera qui residenti e tutti
ci sorridono amichevolmente, una coppia ci fa sedere su due sdraie nel loro
piccolo giardino, portano una Coca ghiacciata formato famiglia nel consueto
bottiglione di plastica e dei bicchieri anch’essi di plastica, bambini corrono
e schiamazzano intorno. Li osservo mentre penso alle descrizioni che la
propaganda filopalestinese diffonde sugli ebrei di Hebron, raccontati come
bestie assetate di sangue, coloni violenti, bambini teppisti che si divertono a
distruggere i banchetti dei palestinesi nella piazza del mercato, certi
dell’impunità garantita dai soldati d’Israele che stazionano a ogni angolo. La
mia mente divaga mentre riposo in questo piccolo giardino circondato da
atmosfere contadine: penso a Bagdad, dieci anni fa quando nella notte apparvero
traccianti luminosi che giravano in tondo rincorrendosi, l’atmosfera divenne
improvvisamente da fantascienza. I globi luminosi si rincorrevano e tutto prese
un colore verde, l’antica Babilonia era spettrale, un silenzio di tomba s’era
impadronito dello spazio. Anche il tempo s’era fermato, tutti guardavano con
preoccupazione quelle luci che lente roteavano, molti si riscossero e fuggirono
nei rifugi allestiti in città. Poi i lampi di fuoco seguiti a breve distanza da
forti esplosioni mentre le postazioni militari del tiranno iniziarono ad esser
colpite. Ritorno alla quiete del piccolo giardino e penso alle menzogne
musulmane alle quali sempre in meno credono, almeno vorrei sperare. Comunque si
stringe la gola a pensare a tutta questa falsa propaganda che demonizza persone
perseguitate da decenni che sono costrette a vivere giorno dopo giorno in uno
stato di tensione disumana. Riprendiamo il nostro giro, voglio attraversare
tutte queste strade e vedo solo cittadini tranquilli anche se giustamente
preoccupati e sicuramente un po’ spaventati, ma sereni, profondamente sereni.
Più avanti scorgiamo alcune donne col turbante che chiacchierano davanti a
delle porte, forse le loro case, e sorvegliano bambini che giocano: ci lanciano
sguardi curiosi come a chiedersi chi siano questi strani personaggi che vengono
a trovare le famiglie ebree una volta al mese e che sorridono a tutti, si
mettono a giocare coi bambini e a chiacchierare coi soldati onnipresenti ad
ogni angolo di strada. Soldati stanchi, ragazzini anch’essi che ormai vivono in
simbiosi con la popolazione ebraica di questa terra e che sono a questo punto
divenuti loro figli adottivi o fratelli maggiori. I soldati ci salutano,
guardano discretamente le ragazze che sono scese con noi dai bus, le belle
ragazzine israeliane un po’ provocanti, un po’ timide che li adocchiano e
offrono loro una gomma o una sigaretta. Questi ragazzi in divisa, armati fino
ai denti se le mangiano con gli occhi, le ringraziano ma poi guardano altrove
perché è vietato distrarsi, potrebbe costare una punizione o peggio ancora, la
vita. Neera mi parla di un residente di qui, un grande maestro spiritualista e
pittore, autore inoltre di molti libri di Cabala, un insegnante della Torah che
deriva dall’albero della vita, che ora ha deciso di trasferirsi con la sua
famiglia e i suoi studenti in un altro insediamento ebraico a pochi chilometri
da Ramallah per sostenere attivamente con preghiere cabaliste e canti di fede e
incoraggiamento i soldati impegnati in azioni militari in quella zona. È
inoltre divenuto un punto di riferimento e di sostegno per tutti coloro che
hanno perso familiari vittime del terrorismo. Mi dice anche il nome di questo
santo uomo, ma non riesco ad afferrarlo perché distratto dai miei pensieri su
un personaggio presente in alcuni miei racconti. Un santo sufi, un derviscio
roteante, nella mia fantasia anche lui pittore. Gli abitanti di Hebron sono
armati fino ai denti, ma chiunque lo sarebbe in un posto ove anche uscire da
casa per comprare le sigarette o per portare il proprio figlio a giocare può
costare la vita. Ci allontaniamo dal centro del quartiere ebraico e saliamo
sulla collina che porta a Tel Rumeida, il cuore della Hebron biblica. Mi dice
che possiamo visitare la tomba di Rut tornata ad essere la tomba di Rut dopo
che per anni era stata trasformata in moschea. Neera sa che io con la religione
non è che abbia il mio santo, mi conosce perfettamente laico, amico d’Israele
ma ateo, perciò si sente in dovere di spiegarmi tutto, anche le cose che già
conosco. Parla di Rut la moabita, della casa di Davide, che dopo la morte in
guerra del marito rifiutò l’invito rivoltole dalla suocera Noemi di ritornare
nel suo villaggio in Moab alla sua famiglia d’origine, dicendole “Il tuo popolo
sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio, dovunque tu andrai io ti seguirò”.
E ritornò assieme a lei a Bet Lechem. Accanto alla tomba di Rut è sepolto anche
Jesse il padre di re Davide. Entriamo e nella stanzetta minuscola e buia
illuminata malamente dalla luce di qualche tremolante candela, qualcuno prega,
un altro sta accendendo una candela, sicuramente ci sarà chi chiede una grazia
e tutti, me compreso siamo travolti dalla magia del luogo. Magia del buio e del
silenzio, interrotto in parte dal brusio delle preghiere, anche fuori domina
l’assenza di rumori interrotta a tratti dal cinguettio degli uccelli. Il cielo
è blu al tramonto, lo stesso blu terso di Gerusalemme e sotto i miei piedi si
trova la terra che ricopre i resti del palazzo di re Davide. Divago, ho la
testa piena degli articoli che devo buttar giù su questi posti: qui l’unico
turismo è quello religioso che si concentra soprattutto a Gerusalemme, a Zfat e
a Tiberiade, Israele oltre ad essere all’avanguardia nel campo della ricerca
medica sta divenendo anche un centro mondiale d’avanguardia nel campo della
medicina naturale e nelle terapie alternative. Molti medici e rabbini, anche
cabalisti praticano già abitualmente l’agopuntura. C’è poi un progetto iniziato
con la Siria teso a trasformare una parte di deserto in foresta, già sono stati
piantati diecine di migliaia d’alberi…ma questa bella iniziativa proseguirà? La
Siria è così inaffidabile e continua ad ospitare sul suo territorio le
organizzazioni terroristiche che hanno lì pure campi d’addestramento.
Mentre gli altri stanno recitando, mi dice Neera
“Ascolta Israele”, noi scendiamo a piedi diretti verso il centro della città. È
già buio e la piazza antistante la grotta della Machapela, la grotta dei
patriarchi si sta facendo silente e deserta. Anche questo è un posto magico,
sembra d’udire il rumore delle carovane bibliche che entrano nell’antica
capitale. Nella grotta ci sono solo le tombe d’Abramo e Sarah, Giacobbe e Leah.
Qui gli ebrei possono entrarvi a giorni alterni, e in quei giorni è
assolutamente vietato l’ingresso ai musulmani. Ripenso a Gerusalemme dove nessun
ebreo può salire al monte del Tempio. Saliamo in silenzio larghe scalinate ed
entriamo in una ampia aula illuminata da candele, migliaia di luci tremolanti
sparse ovunque a grappoli. Ceri che i fedeli accendono, uno per ogni membro
della famiglia, anche per i parenti più lontani o mai visti, tutti qui hanno la
loro candela accesa anche se non lo sapranno mai. Per gli ebrei c’è una tenda
all’aperto ove pregare e trovo tutto questo molto spirituale, tra gli squarci
del tendone s’intravedono le stelle, c’è un rabbino officiante e i fedeli
rispondono mentre alcuni bambini irrequieti giocano tra loro rumorosamente e
nessuno li zittisce. I bambini in Israele sono i veri padroni, padroni che a
diciotto anni devono servire l’esercito e forse non tornare mai più a casa.
Ogni madre pensa sempre con dolore a quel momento. Per le scale s’aggira un
uomo bellissimo, vecchio, con una corta barba bianca ben curata, è l’uomo che
s’è autoeletto a far da tramite trai fedeli e la divinità. Chi gli chiede di
dare la benedizione al figlio che si sposa o divorzia, chi va da lui pregando
perché qualcuno a lui caro sta male o perché il padre o il figlio vanno in
guerra e lui si raccoglie in meditazione e a ogni persona fa una carezza, senza
mai chiedere denaro. A chi vuol fare un’offerta indica uno scrigno d’argento
vicino a uno dei sarcofaghi, lì vanno a finire le offerte dei fedeli che
serviranno a sostenere le spese di mantenimento della grotta. Si avvicina
sorridente, mi carezza il volto con le sue mani affusolate poi le posa sulla
mia testa, inizia a parlarmi in una lingua che proprio non riesco a
riconoscere. La sua voce è melodiosa, ipnotica, avverto una sensazione di
benessere che dalle sue mani giunge direttamente prima alla mia testa tacitando
ogni pensiero per poi defluire all’interno di tutto il mio corpo. In questo
preciso istante sono fuori dallo spazio e dal tempo, mi trovo in una condizione
di benessere totale e sento di non esser solo, sono circondato d’amici, da
divinità? Mi riprendo quando il santo è già lontano da me e sento una gran
confusione nel mio capo, Neera mi sta osservando, quasi sostenendomi, con aria
interrogativa.
-
Cosa mi ha detto? Le chiedo.
-
Ti ha benedetto con antiche preghiere.
-
Non ho capito una sola parola, non era ebraico vero?
-
No. Era una lingua molto più arcaica, ha detto che sei con noi sotto la
nostra protezione. Ha enunciato anche molte altre cose, ma neppure io l’ho
capite, l’ho però riconosciute come antiche preghiere.
-
Penso però che oggi siete voi che avete bisogno di protezione, non io.
Lei ride con quel suo sorriso misterioso e
inquietante e mi guida trai sarcofaghi dei padri e delle madri d’Israele che
sono letteralmente ricoperti d’arabeschi. Mi dice che la tomba d’Isacco è stata
edificata nel quartiere arabo, i non musulmani possono recarsi là solo per
dieci giorni l’anno, sempre molto democratici e liberali oggi i palestinesi
penso, anche la loro nuova costituzione, tanto spacciata per moderna ha come
base la legge coranica, mammamia! Rifletto un attimo su l’Islam che vorrei,
quello erotico delle Mille e una notte, quello mistico e saggio dei dervisci
roteanti, quello poetico di Rumi, quello letterario di Ibn Battuta: quando
l’Islam abbandonerà la via criminale e integralista, senza sbocchi per
rientrare nel suo glorioso passato? Usciamo, ormai è buio, Hebron è
completamente deserta a parte i soldati che stazionano a gruppi e ci salutano
tutti, ci guardano con nostalgia e come se fossimo il tramite tra questo mondo
silente, d’un silenzio carico di tensioni, e quello dal quale provengono, Tel
Aviv, Haifa, Gerusalemme, le città israeliane con i loro bar, le spiagge, le
discoteche, ove anche loro come tutti i ragazzi del mondo avrebbero diritto di
stare e divertirsi. Tutti i ragazzi del mondo compresi gli arabi se non
venissero avvelenati fin da piccoli da odio e menzogne, se non venissero
istigati al “martirio” come massimo compimento dell’esistenza. Il saluto dei
soldati “Shalom” è disperato e disperante, Pace? Quale pace? Dove sta la pace?
Anche in Italia ho visto marciare per la pace i no-global con le magliette del
cheguevara, noto pacifista.
Qualche ebreo uscito dalla vicina sinagoga corre
verso casa chino su se stesso quasi a ripararsi da possibili pericoli. Paura?
Sicuramente sì e la si sente, la paura qui è una sostanza solida, tangibile.
Ripartiamo chiusi nei nostri bus blindati riattraversando le case del quartiere
ebraico sepolte tra monti di sacchetti di sabbia, con le finestre illuminate,
ma di queste vediamo solo la metà superiore. Finestre e porte sbarrate, fuori
sui tetti delle case arabe di Tel Rumeida potrebbe esserci un cecchino nascosto
pronto a colpire l’ebreo di turno.
Chiudo gli occhi mentre il bus cammina e mi lascio
cullare dai ricordi che si mescolano con le mie fantasie letterarie: i primi
anni che ho trascorso in Israele alloggiato vicino all’università di
Gerusalemme, quando con la mia auto scassata giravo sempre tra le colline e
l’asfalto zeppo di buche faceva gemere tutte le giunture dei mio precario
automezzo. A piedi per Gerusalemme, l’unica città al mondo ove poi vagare in
pigiama e pantofole senza destare alcuna curiosità. Fermo da solo in un
desolato parcheggio tra colline e vallate che arrivano fino al Sinai: ulivi,
pini e in lontananza il rumore affievolito d’un trattore eternamente all’opera.
Gerusalemme è sempre distrutta, malgrado si costruisca in continuazione, il
ricordo della distruzione permane. La sua periferia sempre in allerta, tutto è
confine, la zona di frontiera passa ovunque, anche o forse soprattutto nelle
nostre menti. Il vento robusto del mare si scontra con quello del deserto
carico di sabbie e di promesse mai mantenute. In moto per il deserto con la mia
ragazza saldamente afferrata a me, quella che fu per anni il mio amore, ma che
adesso più non c’è vittima di questa assurda guerra mai dichiarata.
Il bus blindato prosegue indifferente ai miei
ricordi la corsa di ritorno col suo carico umano cullando i miei pensieri che
stanno esplorando brani e ricordi
confusamente mischiati ai confini della mente, confini che qui passano anche
all’interno di ogni pensiero. Mi rendo conto d’essere ormai inseparabilmente
legato a questa difficile terra: Neera dorme appoggiata accanto a me e una sua
mano stringe gentilmente la mia.