
di Fabrizio Legger
Buzzard
spalancò la porta con un largo gesto del braccio sinistro, ed entrammo, in fila
indiana.
Quando l’autobus, dopo aver percorso un ampio tornante,
mi scaricò sul ciglio polveroso della strada, sentii che le gambe mi tremavano
come se fossi in procinto di essere condotto alla fucilazione.
Mi guardai attorno quasi basito: avevo la bocca impastata
e lo sguardo stralunato, la testa mi girava, ed ebbi la sensazione come di un
tuffo al cuore…
Mi scolai l’ultimo sorso di birra e gettai la
lattina in mezzo a un cespo di rovi già zeppo di ogni genere di rifiuti. Poi,
osservai con attenzione il paesaggio circostante…
Era tutto così diverso, tutto così cambiato… Eppure,
per me, il tempo si era fermato trent’anni prima!
M’incamminai per una strada non asfaltata,
polverosa, che tagliava in due quelle vaste distese di campi che si alternavano
a rotonde colline simili a turgidi seni femminei.
Al limitare dei campi, tra gli alberi, si notavano
le minigonne e le canottiere dai colori vivaci di gruppetti di prostitute di
colore che attendevano i clienti in quella torrida campagna sulla quale non
spirava il benché minimo soffio di vento.
Mi calcai il berretto sulla fronte perché il sole mi
batteva fastidiosamente sugli occhi.
Era un sole rabbioso, incazzato, i cui raggi
bruciavano sulla mia pelle arsa e sudaticcia.
Mentre camminavo, mi guardavo attorno come allibito:
la mia mente era affollata da una ridda turbinosa di vividi ricordi, di cocenti
memorie e di indelebili impressioni che facevano ressa nella mia anima, quasi
l’una volesse prendere il sopravvento sull’altra… Bastava una piccola traccia,
una insignificante impronta, una remota vestigia per scatenare nella mia mente
i turbinosi ricordi di un passato lontano.
Guardai alla mia destra: c’era una collina, e mi
ricordai che in cima a questa c’era una casa, la casa di Patty Dong.
Me la ricordavo bene la casa di Patty, con i tre
suoi cani spelacchiati e le sue galline dall’aria annoiata, con la sua capretta
Beka e con quei grassi maiali vietnamiti che erano l’orgoglio di suo padre,
Nguyen Dong.
Era anche la casa dove, in un afoso pomeriggio di
luglio, negli anni irrequieti della mia adolescenza, vissi la mia prima
esperienza con il sesso.
Patty aveva tre anni più di me, e quel giorno era
irresistibilmente vogliosa.
Ricordo che mi slacciò i pantaloni mentre io restavo
lì, basito, a guardarla, con gli occhi dilatati per l’eccitazione, il timore, e
la sorpresa di trovarmi, per la prima volta in vita mia, di fronte ad una
femmina così spregiudicatamente libidinosa.
Poi, quando la sua bocca ingorda fagocitò il mio
pene, mi trovai, di colpo, balestrato tra le stelle… Ero fuori di me, non
capivo più niente, mi sembrava di essere in paradiso, e invece stavo con il
culo scoperto e le mutande abbassate, appoggiato ad una delle pareti di legno
del fienile della casa di Patty.
Vedevo la testa di lei che andava forsennatamente su
e giù mentre le sue labbra mi lavoravano l’organo sessuale e sentivo le sue
dita fresche che mi palpavano nervosamente i testicoli…
Infine, ricordo che si denudò e, inginocchiandosi,
mi offrì il suo sesso umido e vorace: quasi meccanicamente, come sospinto da un
istinto perverso, mi avvinghiai a lei e la penetrai, montandola con foga
selvaggia, tanto che venimmo insieme, praticamente subito, in maniera del tutto
travolgente e inesperta.
Provai piacere e dolore al tempo stesso, ma poi mi
sentii immediatamente stanco… Mi lasciai andare, riverso, sul pavimento ligneo
del fienile, e Patty si coricò al mio fianco: ero esausto, e pensai che, in fin
dei conti, il sesso non doveva poi essere quella gran cosa di cui tanto si
favoleggiava se, alla fin fine, era di così breve durata. Ovviamente, ignoravo
che, in seguito, mi sarei ricreduto…
La mia burrascosa esistenza fu infatti costellata da
innumerevoli amori clandestini, rapporti occasionali e avventure erotiche di
ogni genere: il mio mestiere di marinaio mi condusse nei porti più lontani, nei
paesi più misteriosi, e non ci fu porto in Africa, in Asia, in Medio Oriente o
in America Latina, dove non mi resi protagonista di colossali scopate e di
terrificanti sbronze che mi lasciarono più morto che vivo.
Guardai dunque verso la sommità della collina dove
un tempo sorgeva la casa di Patty Dong, ma quella casa non c’era più…
Al suo posto si innalzava l’imponente struttura di
un albergo, un residence, credo, brulicante d’auto di ricchi villeggianti
dall’aria annoiata e dagli sguardi idioti.
Per me, fu un vero colpo al cuore… Chissà dove era
finita Patty, con i suoi languidi occhi a mandorla, i suoi fianchi da carcassa
e il suo bel culetto morbido come un soffice cuscino di seta! Chissà che fine
aveva fatto la sua bella casa!
Mi salì un groppo alla gola, sospirai, lanciai
un’ultima occhiata all’albergo in cima alla collina, poi, assai immalinconito,
ripresi il cammino.
Faceva caldo, molto caldo, troppo caldo, ed io
sudavo, sudavo, sudavo come una fontana, ma non mi venne neppure in mente di
fermarmi un po’, anche per un solo istante.
Attraversai vasti campi incolti, ignorando i fischi
e i richiami delle procaci prostitute nere che mi invitavano a raggiungerle,
salii e discesi una collina tutta verde d’erba e ombrata da alberi dalle fitte
chiome, passai in mezzo a lunghi filari di viti e passai su un ponte sotto il
quale scorreva un torrente dalle acque vorticose: il Barcio, teatro di giochi e
di avventure della mia scapestrata infanzia…
Mentre attraversavo quel ponte di legno, pensai che
mi lasciavo alle spalle una vita di merda, contrassegnata da un continuo
vagabondare da un mare all’altro, da un oceano all’altro, da un porto
all’altro: Latakia, Valparaiso, Odessa, Aden, Caracas, Luanda, Singapore, Karachi, Miami, Manila, Abidjan…
Quante fottute città visitai, quanti porti, quante genti, quante bettole e
quante fiche ebbi modo di frequentare nel corso dei miei lunghi e interminabili
viaggi!
Ora, però, sentivo proprio un bisogno insopprimibile
di tornare alla mia vecchia casa, nella mia terra, tra la mia gente, per
crepare serenamente in quei luoghi che mi avevano veduto nascere, crescere e
diventare adulto.
Mentre camminavo sotto il sole cocente, pensavo a
quando fuggii di casa, all’età di tredici anni. Raggiunsi il mare nascosto nel
un vagone di un treno merci, poi m’imbarcai come mozzo su un mercantile
panamense.
Fu una vita dura, una vita di soprusi, di violenze e
di sopraffazioni, ma mi riuscì di sopportarla grazie alla mia brama smodata di
vedere il mondo.
Vidi tante facce, conobbi tanta losca gente, passai
le mie notti con puttane, avvinazzati, barboni e avventuriere d’ogni risma, e
divenni assai bene esperto nell’uso del coltello… Frequentando certi ambienti,
un buon coltello finisce con il diventare il tuo più fedele amico.
Le bettole dei porti e i lupanari dei quartieri
malfamati furono per molto tempo la mia casa, al pari delle grandi navi sulle
quali lavoravo per oltre dieci mesi all’anno.
Vidi anche molte orribili guerre, assurdi sacrifici
di uomini e di risorse che non servirono proprio a un cazzo: quella del Biafra,
quella del Bangladesh, quella di Timor Est, quella di Cipro, quella delle
Malvinas… Tanti conflitti assolutamente inutili e tanta, troppa gente inerme,
morta di fame o ammazzata davvero per niente!
Ma ora tutto era finito, passato, scivolato nel
dimenticatoio del tempo… Ero di nuovo nel mio paese, nella mia terra, tra la
mia gente, e più nulla al mondo avrebbe potuto strapparmi a tutto ciò.
Continuai a camminare tra i campi, attraversai un
uliveto, altri vigneti, mi lasciai sulla destra una collina brulla e assolata,
fiancheggiai lunghe distese di alberi da frutta… Per fortuna, tutti quegli
alberi mi offrivano un buon riparo, con la loro ombra e la loro frescura, il
che mi permetteva di continuare a camminare piuttosto spedito anche sotto quel
sole terribile, anche in mezzo a quel caldo che mi opprimeva con la sua insopportabile afa.
Infine, oltrepassata la
Collina delle Tre Querce, giunsi in vista di una casetta che emergeva
da un ammasso di intricata vegetazione.
Sentii le gambe che mi tremavano e il cuore prese a
battermi forte, come un pendolo impazzito.
Quella, quella era la mia casa, la perduta ma
indimenticata casa della mia infanzia!
Però, notai subito che si trattava di una casa ormai
abbandonata da tantissimi anni.
Dopo la morte di mia madre, l’avevano abitata prima
mio zio, poi due miei cugini. Infine, se ne erano andati tutti, lasciandola in
stato di completo abbandono, e così, la mia vecchia casa era diventata rifugio
di viandanti, tossici, vagabondi, satanisti, oppure di semplici bulli che si
nascondevano tra le sue mura per bere, fumare, cannarsi, e magari chiavare in
santa pace, senza essere disturbati da chicchessia.
Dove, un tempo, c’erano l’orto e il giardino, ora
dominavano solo rovi, cespugli spinosi, felci, ortiche e gramigna.
Alte erbacce, sinuosi rampicanti, edera, e persino
tronchi di giovani alberi, la circondavano da ogni lato, rendendola simile ad
un bizzarro agglomerato silvestre.
Le finestre erano tutte rotte, la veranda era ridotta
in condizioni pietose, il comignolo era crollato…
Mi avvicinai con il cuore trepidante, travolto da
una ridda di ricordi, emozioni, rimpianti e nostalgie che, per un breve
istante, sembrò sommergermi del tutto.
La porta d’ingresso era spalancata. Entrai
cautamente, quasi con religioso timore, ed ebbi modo di constatare che non si
trattava più di una casa ma di una vera e propria stamberga.
Il tavolo della cucina era ingombro di sozzure
d’ogni genere, così come anche i pavimenti, sui quali giacevano sedie sfasciate
e piene di ragnatele, foglie secche, ramaglie, resti di cibo, pezzi di mobili,
bottiglie ricoperte di muffa, vecchi giornali ingialliti, mozziconi di
sigarette, profilattici usati ed escrementi animali ed umani …
La credenza era desolatamente vuota, stoviglie e
suppellettili erano sparse per ogni dove, e sul soffitto, al posto dei
lampadari, c’erano dei buchi dai quali fuoriuscivano contorti fili elettrici.
Il bagno, poi, era ridotto in uno stato
indescrivibile, al pari della camera da letto, dove c’erano solo più due
materassi lerci e impolverati e un armadio dalle porte rotte e cigolanti.
Tutto ciò che poteva essere rubato era stato portato
via e, a parte alcuni mobili mezzi marci e qualche polveroso oggetto
dimenticato sul pavimento, tutte le stanze erano desolatamente vuote.
Posai il mio zaino su una traballante sedia e mi
distesi su ciò che restava di un vecchio divano, sfasciato e corroso
dall’umidità.
La mia mente correva indietro nel tempo: pensavo
alle lunghe giornate estive vissute da bambino in quella vecchia casa, con mia
madre vedova che coltivava l’orto, accudiva la casa, preparava da mangiare e
cuciva fino a tarda notte per rimediare quei quattro soldi che ci servivano per
tirare avanti.
Quanti ricordi tra quelle mura, quanti pianti,
quante risate, quanta voglia di evadere per andare a vedere il mondo!
Aprii lo zaino e tirai fuori una lattina di birra,
purtroppo già calda. Ne ingurgitai alcune sorsate, poi alzai gli occhi verso il
soffitto e iniziai a pensare che ora toccava a me rimettere in sesto quella
casa, in modo da poterci vivere sino alla fine dei miei giorni, come avevano
fatto mia madre, mio nonno e le mie due zie, prima di me.
Allora mi feci coraggio, mi alzai, mi rimboccai le
maniche della camicia e afferrai una vecchia scopa di saggina che giaceva
abbandonata in un angolo. Iniziai a ramazzare il pavimento con grinta, ben
deciso a rimettere un poco di ordine, almeno nella cucina, mentre il sole,
lentamente, si avviava al tramonto.
La squallida desolazione in cui avevo trovato la mia
vecchia casa mi aveva messo addosso una certa tristezza, ma ero comunque felice
di essere tornato, di averla trovata ancora in piedi e di essere riuscito a
conservare un po’ di forze per ripulirla e rimetterla a nuovo.
Avevo posto fine ai miei lunghi anni di viaggi, di
vagabondaggio, di lavori randagi in giro per tutto il globo e di avventure
bislacche che mi avevano portato a conoscere le taverne e i postriboli di mezzo
mondo.
Era giunto il momento di fermarsi, anche perché,
proprio quel giorno, compivo sessant’anni suonati: bisognava rimettersi in riga
per tempo e darsi una calmata… Gli anni burrascosi della giovinezza e della
virilità non erano altro, ormai, che un lontano ricordo.
Ero destinato a rimanere solo con me stesso, con i
miei ricordi e le mie nostalgie, con le mie memorie, ma avevo fatto la scelta
giusta. Infatti, ritornando alla vecchia casa, avevo ritrovato le mie radici,
la culla del mio passato, e, soprattutto, dopo tanto girovagare in lungo e in
largo per tutti i mari e tutte le strade del mondo, avevo fatto ritorno nella
terra a me più sacra: quella della mia famiglia, dei miei avi, della stirpe
alla quale ero orgoglioso di appartenere.
Ci pensai su e mi convinsi che non era certo poca
cosa.
Posai la ramazza, raccolsi l’immondizia in due
grossi sacchi di nylon, poi uscii fuori, sulla veranda, a fumarmi una
sigaretta.
Le campagne, tutt’intorno alla casa, si stavano
riempiendo di lucciole, i grilli frinivano senza sosta e, in lontananza,
incominciava ad udirsi il lugubre verso della civetta.
Assaporai a lungo il fumo della sigaretta e pensai
con fiducia al futuro che mi attendeva.
Per me, quel giorno, era iniziata una nuova vita.