📰 Schermi Riflessi di Armando Lostaglio: Qui rido io in concorso alla 78 Mostra del Cinema di Venezia
Riaffiorano ricordi rioneresi con il metateatro nel cinema di Mario Martone
Ha suscitato molta ilarità e passione alla Mostra del Cinema di Venezia il film di Mario Martone Qui rido io. E non solo nel pubblico e fra i critici italiani. E’ un viaggio nella memoria che riaccende, in chi abbia a cuore il teatro, quello spirito mai sopito che proviene dalla tradizione classica. Tony Servillo è il protagonista assoluto di questa operazione di metateatro nel cinema. Con Mario Martone lavorano insieme da oltre trent’anni, a partire dalla esperienza napoletana di Falso Movimento . Martone esordirà al cinema nel 1992 con Morte di un matematico napoletano e sempre con Servillo proseguirà con I vesuviani , Teatro di guerra e Noi credevamo che celebra la nascita dell’Unità d’Italia. Dirà Martone: “A teatro con quel gruppo facevo cinema in palcoscenico, lavorando sulla contaminazione di generi”. Ed è qui dunque la radice del film: Qui rido io, 133 minuti di genuino spettacolo . Mario Martone – dicevamo - compie un’azione di metateatro adattato al cinema. Teatro nel teatro. L’azione dei personaggi rimane consapevole, con uno slancio volto alla drammaturgia contemporanea. Cinema quale sequenza di scene e di azioni, e in esso la teatralità si accentua con movenze precise, battute calibrate su piani sequenze che solo una regia evoluta sa proporre. E nel vedere questo film straordinario si ha l’impressione di non essere al cinema bensì dentro un teatro: il pubblico atto a recepire e farsi interprete di una pièce teatrale, in grado di rompere - per definizione – “la quarta parete tra gli attori e il pubblico”. Per mettere in atto tutto questo, Mario Martone si affida ad un mostro della scena qual è Toni Servillo (con tre film al Lido) nei panni di Eduardo Scarpetta, di cui narra le gesta umane ed artistiche. L’attore, nel finale del film quasi in un unico piano sequenza, arringa la corte al processo per plagio avviatogli contro da Gabriele D’Annunzio per la parodia de “La figlia di Iorio”. Un finale da applausi a scena aperta, sia fra il pubblico sullo schermo che in sala, rompendo idealmente quella “quarta parete”. La vicenda dell’attore e commediografo Scarpetta, durante i fasti napoletani della Belle Époque ai primi del ‘900, rimane una pagina importante nella storia del teatro italiano. E non poteva sfuggire ad un regista come Martone che già con “Il sindaco del Rione Sanità” tratto da Eduardo De Filippo, ha iniziato una trilogia sugli inestimabili patrimoni del teatro napoletano: commedia questa portata anche sul palcoscenico in una rilettura moderna, prima che diventasse un film, pure a Venezia due anni or sono. In Scarpetta è vivido il sogno di soppiantare nel cuore dei napoletani l’antica maschera di Pulcinella con quella di Felice Sciosciammocca . E ci riesce, riempendo ogni sera il suo teatro per lunghi anni e portarlo in tournée in giro per l’Italia. Un nome consolidato dunque (che Servillo richiama con movenze talvolta alla Charlot), che lo porterà persino (dicevamo) ad azzardare la parodia di un testo del Vate, (difesa persino da Benedetto Croce) tanto amato da drammaturghi ed intellettuali di nuova generazione. Libero Bovio, Di Giacomo, Murolo e molti altri, autori peraltro di melodie poetiche che restano immortali nella memoria di ogni tempo. Canzoni che l’accurata regia sa mettere in simbiosi con la narrazione. Le movenze di Servillo rimandano alla memoria personaggi del teatro popolare del Novecento rionerese: una su tutte quella di Enrico Brienza, Ricuccio per tutti, che esprimeva un talento puro nella macchietta di “ Ciccio Furmaggio ”, nel racconto di aneddoti, con movenze perfette per il teatro di quell’epoca. Ma che le sorti hanno lasciato nel ruolo di amabile bidello della Scuola Media “Michele Granata” braccio destro del preside Enzo Cervellino.
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