“Ben venga Maggio e il gonfalone amico, ben venga primavera, il nuovo
amore getti via l'antico nell' ombra della sera...”
E’ “La canzone dei dodici
mesi” che il poeta Guccini cantava in una lontana stagione di belle
speranze (chissà quanto tradite): era il 1972, e i giovani nutrivano pensieri
e canzoni, e poi ammiravano le “vaghe stelle dell’Orsa”.
Troppi anni ci separano da quelle stagioni nelle quali si aveva l’ambizione
di costruire la storia giorno per giorno. Tutto sembra ora affievolito da una
consuetudine che non lascia molto spazio alla costruzione del Nuovo.
Sembra pure che possa accadere qualcosa in una società apparentemente
in movimento, eppure tutto si consuma nel più breve lasso di tempo. Ci si
guarda intorno in questi borghi che sembrano avviluppati in spirali
dinamiche, eppure sono immobili: il tempo passa su di essi lasciando un
segno spesso deleterio. La linfa vitale, quella dei giovani che dovrebbe
sorreggerne le ambizioni, è talvolta soggiogata come per una infausta
legge di contrappasso. Sovvertire questo tempo infausto, che infetta con il
corpo anche i rapporti umani. Sovviene un verso terribilmente bello: “i
minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità,
la lenza / buttata a vuoto nei secoli” . E’ di un poeta del secolo scorso,
Vittorio Sereni (era amico di Sinisgalli). Parole gravi che potrebbero
condurci ad una maggiore riflessione sul tempo corrente, e in particolare
nei nostri borghi persino quando si decide (fra pochi giorni) il futuro di un
luogo che, almeno apparentemente, sembra vocato a cambiare. I nostri
luoghi avranno pure un nome, gravitano attorno ad un monte alato che da
lontano appare come un avvoltoio, così almeno lo hanno visto i latini:
Vultur lo chiamavano.
Ma il fermento dov’è? Dove sono quei ragazzi che dipingevano le strade,
che profumavano di impegno e di futuro le proprie azioni? Sembra invece
che tutto rimanga affievolito, pur nell’approssimarsi di una stagione
nuova. Ancora Sereni ci riconduce ad una originale visione: “Non lunga
tra due golfi di clamore / va, tutta case, la via; / ma l'apre d'un tratto uno
squarcio / ove irrompono sparuti / monelli e forse il sole a primavera. /
Ma i volti non so più dire” . Quei volti che dovrebbero sorridere a
primavera, perché il verde si rinnova e “le piante turbate inteneriscono” .
Ci saranno pure dei possibili colpevoli in tutto questo, in un minuscolo
disfacimento di valori e di saperi? E’ probabile che lo si ritrovi in ogni
meandro della vita quotidiana, in questo ed in quello che decide le sorti di
una comunità, in quelli che hanno sbagliato le scelte nei precedenti lustri,
in quelli che sono lì e che non meritavano di stare lì. C’è sempre qualcun
altro da investire della sua irresponsabilità. La riflessione cade come una
(chissà quanto utile) fantasia notturna, di un maggio che porti buone
nuove; di individuare le colpe in ciascuno; eppure - suggerisce Sereni - “i
volti non so più dire” .
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