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Schermi Riflessi di Armando Lostaglio: Elogio di Carmelo Bene, quattordici anni dalla scomparsa


A sedici anni dalla scomparsa di Carmelo Bene (16 marzo del 2002), considerato il più eclettico attore-autore-regista del teatro contemporaneo, quasi nessuno se ne ricorda, di un genio assoluto del teatro moderno, anzi l'Avanguardia. Di un attore eretico e controverso, talento incommensurabile di creatività. Diceva di se: “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”. Originario di Campi Salentino (Lecce) dove era nato nel 1937, Carmelo Bene ha lasciato un patrimonio enorme di scritture teatrali, di rivisitazioni originali (da Pinocchio a Salomé ad Amleto ad Otello e Riccardo III) e film fra l’ermetico e il paranoico.


Si ricorderà “Nostra Signora dei Turchi” del ’68 tratto da un suo primo romanzo, restaurato e riproposto a Venezia qualche anno fa; “Capricci” del ’69; l’anno dopo “Don Giovanni”, e “Salomé” nel ’72, ispirato all’opera di Wilde; l’anno successivo “Un Amleto in meno”. Per il critico Goffredo Fofi: “Nasce così la vera interrogazione che non è della letteratura ma della filosofia: oltre Nietzsche e ben oltre Freud, e ovviamente ben oltre Marx, a confronto con Heidegger, dentro la coscienza dell’essere detti e del non poter più dire e dirsi, ma tuttavia dicendo e dicendosi. (…) Narciso si specchia in sé per capire, e precipita del non capire, del non esserci oggetto del capire”. E’ una lunga affettuosa epistola quella che Giancarlo Dotto ha inteso redigere proprio per il decennale della scomparsa del drammaturgo. Il titolo è alquanto esplicativo: “Elogio di Carmelo Bene” (Pironti editore, pagg. 39). Dotto per diversi anni ha seguito in tournée l’attore, al quale aveva dedicato “Il principe dell’assenza”, una tesi di laurea che Bene ha fatto rilegare in oro dall’editore Giusti. Oltre che un amico, Dotto è stato assistente alla regia. L’elogio parte proprio dal ricordo di una notte trascorsa in auto con l’attore: era la stagione in cui Carmelo Bene ed Eduardo De Filippo giravano i palchi italiani per quel memorabile recital doppio. Bene esaltava Dante, mentre Eduardo interpretava la poesia napoletana. Quella di Dotto è una evocazione di passioni ma anche di vizi e laceranti prolusioni dell’estroso drammaturgo. Ma ci parla anche di malattie cardiache e dei quattro by-pass; il tabagismo inguaribile è i singolari colpi di scena. Dotto racconta pure di un Carmelo Bene appassionato di Mario Merola, e soprattutto di calcio: esaltava quel Brasile del mondiale 1982 (che però la nostra Nazionale sconfisse) e di quel grande attaccante che è stato Van Basten. I vizi di Carmelo Bene nei ricordi di Dotto sono diversi e talvolta letali, come tirare cocaina persino dopo aver subito un intervento al cuore. E parla di quanto amasse le donne, specialmente bolognesi. Carmelo Bene viveva per il teatro e paradossalmente aspirava a portare la poesia negli stadi. Ma arrivò la labirintite e i colori messi su tela con gesti smaniosi, fino al punto in cui si arrenderà con una esclamazione un po’ drammatica: “non potrò mai superare la grandezza di Francis Bacon”. Di questo artista Bene amava i colori forti e la suprema sintesi dell’anatomia. Bene è stato un visionario, un artista eretico, ha anticipato tempi e visioni umane, perché “l’arte precorre, profetizza, o non è arte”.
Il personale ricordo va all’aula magna dell’ateneo di Torino, in un grigio pomeriggio di inverno. Era il 1981. La facoltà di Lettere organizzava spesso incontri con gli autori, da Roberto Benigni a Vittorio Gassman a Carmelo Bene. Stracolma di studenti ad accogliere l’attore regista salentino, accompagnato dal preside della facoltà e da una bellissima donna. Era vestita di nero, come l’attore, perché, confidò – si sentiva “a lutto con la vita”. Con la sua voce grave e a tratti dolcissima, Bene spaziava da concetti letterari a quelli filosofici, toccando religiosità e politica, cinema, arte e teatro: “Si fa molto cinema, ma pochi sono i film”. Pasolini certamente. Gli oltre quattrocento studenti ascoltavano immobili e muti, rapiti da così tanta cultura, armonizzata in dissertazioni fluide ed appassionanti. Dopo oltre un’ora ininterrotta di argomentazioni, l’attore si ferma e chiede agli studenti di interloquire, di proporre quesiti e domande. Segue un silenzio tombale, interminabili secondi al limite dell’imbarazzo. Anche il preside faceva fatica a gestire quel momento. Una timidissima quanto coraggiosa domanda di una studentessa rompe il ghiaccio chiedendo più o meno: “Cosa è il silenzio in Carmelo Bene, qual è la differenza con il suono.” L’attore, pur composto ma con un leggero ghigno che tradiva un divertito atteggiamento, risponde con semplicità, mettendo in luce le doti straordinarie di una voce, la sua, che avrà avuto pochi eguali nella storia del teatro di ogni tempo. Altri lunghi attimi di silenzio, tutti intimoriti da quella personalità così eccelsa, al punto che all’attore sfugge: “…ma dove siamo all’università oppure al Cottolengo di Torino?” Una “provocazione” che ad un gruppo di studenti di Autonomia non sfuggirà affatto, per cui si rumoreggia e si lanciano “ma chi ti credi di essere?” o ancora “come ti permetti…” e via dicendo. Ma l’attore,  senza scomporsi, ribatte: “Volete reagire con le mani? Basta che non lo fate in gruppo, ma uno per volta…” La situazione poteva degenerare; pertanto il preside interviene con autorevolezza e dopo poche battute conclude quel singolare incontro con l’Autore. Mai, come in quella occasione, abbiamo avvertito un brivido di esiguità, di sentirsi limitati e piccoli come formiche, al cospetto di un gigante della cultura, non solo in quanto autore ed attore, ma capace di provocare e comunque di infervorare ogni evento con la sua presenza. Quell’anno, nel primo anniversario della strage alla stazione di Bologna (2 agosto 1980), Carmelo Bene fu chiamato per commemorarlo: dalla Torre degli Asinelli leggerà alcuni canti dell’Inferno dantesco. Con la sua voce strascicata, calda e grave, minacciosa quasi. In migliaia a commuoversi, con un applauso corroborante e assoluto.

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