Aveva trionfato a
Berlino 2012
Cesare deve morire dei Fratelli Taviani esce dalla lista degli
Oscar 2013
Aveva vinto l’Orso d’Oro all’ultimo Festival del Cinema di
Berlino il film di Paolo e Vittorio Taviani Cesare
deve morire, liberamente ispirato al “Giulio Cesare” di Shakespeare e
girato come un documentario (quasi tutto in bianco e nero) con i detenuti del
carcere romano di Rebibbia.
E’ uno dei film più evoluti ed artisticamente più
interessanti della stagione, che ha anche avuto l’onore di rappresentare
l’Italia nella selezione per gli Oscar dei film non americani. Purtroppo è appena
stato escluso dalla shortlist delle
nomination dei nove film, da cui ne verranno successivamente estratti cinque
per le candidature ufficiali. Nella considerevole vetrina mondiale offerta da
Hollywood, il cinema di casa nostra, ancora una volta, viene messo da parte.
Saranno in lizza film certamente di altissimo valore come “Oltre le
colline” del rumeno Cristian
Mungiuì, il meraviglioso “Amour” di Michael
Haneke (per l’Austria, vincitore a Cannes), il cileno “No” di Pablo Larraín,
il canadese “War Witch”
di Kim Nguyen
(storia di un bambino-soldato in Africa), opere di indiscusso valore. Per la Francia
supera la selezione quel “Quasi amici”
di Olivier
Nakache e Eric Toledano,
commedia dei sentimenti (un po’ furbesco) che ha sbancato anche da noi.
Eppure il film dei Taviani meritava di approdare nella
“lista” dei cinque.
Intanto, erano ventuno anni che l'Italia non vinceva l’Orso
d’Oro a Berlino (nel 1991 se lo aggiudicò il compianto Marco Ferreri, magnifico
autore di opere controverse ed imperiture, con il film “La casa del sorriso”, una
storia d’amore fra anziani ambientato in una casa di riposo: interprete l’immensa
Ingrid Thulin, una delle muse di Ingmar Bergman e del cinema svedese).
Paolo e Vittorio Taviani sono autori che da oltre
cinquant’anni si ostinano a portare sul grande schermo storie e sensazioni che
fanno epoca. Cesare deve morire è un
esempio eccellente di come si possa inventare cinema da pochi elementi, dal teatro
tratteggiato in un carcere fra
ergastolani, fino a realizzare un connubio fra il classico e il moderno,
intriso di una drammaticità di altissima scuola. Il film ha una propria
visione universale, non potrebbe mai essere addebitato (per l’esclusione dagli
Oscar) di riferirsi ad un ambito ristretto. Ha invece uno sguardo di ampia
umanità, è una rara lezione di cinema.
“L’Orso d’Oro di
Berlino ci riempie di gioia - aveva commentato Paolo Taviani - soprattutto per
chi ha lavorato con noi. Sono i detenuti di Rebibbia guidati dal regista Fabio
Cavalli che li ha portati al teatro. Questi detenuti-attori hanno dato se stessi
per realizzare questo film e ci fa
piacere vincere un premio al festival di Berlino che non ha un indirizzo
generico ma che, al contrario, ha un carattere molto specifico: cerca forze
nuove e cerca forze che si appassionino a tematiche sociali. Questo film
combina tante cose: Shakespeare entra dentro Rebibbia. E io penso che questa
esperienza forte ci rimarrà dentro sempre, anche come contraddizione, e
comunque come grande momento di qualità''.
Paolo e Vittorio Taviani approdarono al cinema nel 1960 come
aiuti registi - insieme a Tinto Brass - del maestro olandese Joris Ivens, che aveva
girato anche in Basilicata, per conto di Enrico Mattei, il documentario L’Italia non è un paese povero sulla
nascente epopea delle estrazioni di metano. Il primo film dei Taviani è del
1967, I sovversivi, (con un trentenne
Lucio Dalla) che anticipava gli avvenimenti del 1968. Il riconoscimento
mondiale è arrivato con la Palma d’oro a Cannes nel 1977 per Padre padrone ritenuto ormai un film
cult.