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Autori Underground



PROTOCOLLO 58
di Vittorio Baccelli

L
a mia mano. Mi concentro sul vetro che separa la palestra dal giardino. La mano lentamente penetra nel cristallo, non provo alcun sforzo, è come se avessi immerso nell’acqua l’intero braccio. C’è stata una variazione, non ricordo in seguito a cosa si sia manifestata, ma le regole, almeno alcune regole dell’esistente hanno subito delle modificazioni e ho il sentore che queste divergenze si vadano amplificando momento dopo momento.
C’è stato sicuramente un errore nella formattazione delle memorie solide. Uno scherzo del caso o una voluta discrepanza del creatore del sistema. È come se ogni modulo dell’apparato subisca modifiche autonome. C’è un errore di sistema, la mano intanto ha attraversato il cristallo, e anche l’intero braccio. La finestra è solo un buco verso una realtà diversa, non scorgo più il giardino della palestra, ma un ambiente diverso. Scavalco la finestra e mi ritrovo in un patio che si sta animando di colpo. Un giovane coi capelli biondi e una donna vestita di bianco, bassa con una grande pancia prominente stanno accompagnando un bambino e un vecchio tenendoli sottobraccio. Il vecchio negli anni della gioventù doveva aver posseduto un aspetto imponente, ma adesso avanza trascinando i piedi ed è notevolmente piegato in avanti, sì che la donna che lo sorregge, ansima dallo sforzo. La donna con la pancia gli passa dietro e tenendolo sotto le braccia lo accompagna a sedersi su una grande poltrona di pelle nera sistemata in un angolo del patio rivolto verso il mare. Il vecchio fa una smorfia per lo sforzo, poi si lascia pesantemente cadere sulla grande poltrona. Rimbalza contro lo schienale, con la mano cerca a lungo in una delle maniche della maglia di lana che indossa e quindi sfila un fazzoletto ricamato che si passa sulle labbra, poi ripetutamente sulla fronte che è imperlata di sudore. Il vecchio s’addormenta, si risveglia solo dopo alcune ore: riapre gli occhi e parla col ragazzo dai capelli biondi che nel frattempo si è seduto di fronte a lui. Il ragazzo gli indica qualcuno che sta passando, camminando lentamente lungo il lontano bagnasciuga. Stanno guardando entrambi verso la spiaggia e il vecchio sorride e annuisce con leggeri segni della testa. Con gli occhi seguono il piccolo flusso di coloro che stanno transitando sulla spiaggia, una piccola truppa colorata in quel soleggiato pomeriggio di primavera. Più avanti, fuori dalla portata della vista del vecchio, c’è un arco oltre il quale molte persone si trovano nude sdraiate sulla sabbia: alcuni più avventurosi degli altri stanno facendo il loro primo bagno della stagione. Oltre la spiaggia affollata dai primi bagnanti si dipana il corso che penetra fino al cuore del paese. Raggiunge una piazzetta col bar gremito di gente seduta all’aperto davanti a piccoli tavoli bianchi. Proprio in quell’istante l’alieno esce dalle acque e scivola sulla sabbia in direzione del patio. Tutto sembra fermarsi, la gente che passeggia sul corso e sul bagnasciuga, i bagnanti, gli avventori del bar. C’è un silenzio assoluto e un’immobilità totale. Lentamente l’alieno scivola sul patio e si ferma davanti al vecchio che seduto lo stava aspettando. L’alieno allunga un arto, l’equivalente di un braccio e tocca leggermente la fronte del vecchio. Al tocco una vibrazione si sprigiona nell’aria e onde colorate scuotono il reale e si diffondono in vibrazioni concentriche finchè il set risulta completamente mutato, il mare, la sabbia, il patio sono ormai scomparsi.
L’ambiente ora è quello del vecchio west, un piccolo centro abitato con costruzioni tutte in legno: la piazzetta permane ma al posto del bar s’apre un saloon, fuori ci sono dei cavalli con le briglie legate ad una palizzata. E’ pomeriggio e uno strano uomo fa il suo ingresso nel saloon. Ha una faccia paurosa e dalla sua cintura pendono due pistole con finiture in argento. Si mette a sedere su uno degli sgangherati sgabelli che si trovano accanto al bancone, rivolgendosi poi distrattamente al barista, chiede: “Uno scotch! Di corsa!”. Il liquore arriva velocemente e mentre lo sta bevendo un uomo lo urta. Il bicchiere cade per terra e il wisky si versa sia sul lurido pavimento in terra battuta che sul bancone. Il nuovo maldestro arrivato senza chiedere scusa si toglie il cappello e lo posa sul banco. A quel punto il pistolero a cui è stato versato il liquore s’alza e la sua faccia ha un che di familiare, si rendono conto gli astanti, infatti, se qualcuno guardasse nell’angolo della parete di destra ove sono affisse le foto dei ricercati, vedrebbe anche la sua, con sotto il nome di Jack e una rilevante taglia. E’ sul punto di sfilare una delle sue pistole con gli argenti luccicanti quando nel saloon fa il suo ingresso lo sceriffo di quel posto dimenticato da dio e dagli uomini. Lo sceriffo capisce a volo la scena e senza esitazione, forse senza neppure pensare, spara alla mano di Jack, quella che già tiene la grossa pistola. Subito lo sceriffo comprende con chi ha a che fare e s’appresta ad arrestarlo. Gli sta dicendo di non muoversi e che gli avrebbe letto i suoi diritti, quando Jack, per nulla intimorito dalla mano ferita lo interrompe: “Perché non andiamo fuori e chiariamo le cose col piombo?”. Lui risponde: ” Non siamo in gara, ti devo arrestare, tra l’altro voglio godermi la taglia che pende da qualche tempo sulla tua testa.” Al che Jack con la mano sana afferra fulmineo l’altra pistola, la punta alla testa dello sceriffo e gli chiede: ”E ora? Cosa decidi adesso?” L’altro abbassa l’arma e gli fa cenno d’uscire. Si ritrovano nella strada polverosa davanti al saloon, si mettono in posizione. Jack lancia in aria una moneta e quando questa tocca il suolo i due sparano e si ode un sol colpo. Intanto tutti gli avventori del saloon e i vagabondi che stazionano per strada si fanno attorno a loro due: dopo l’unico colpo tutto sembra fermarsi, i due rimangono immobili per circa un minuto, trascorso il quale, lo sceriffo cade per terra in avanti e più non si muove. Tutti rimangono immobili ancora per qualche secondo, poi Jack lentamente rimette nella fondina la pistola e s’avvia verso la sua cavalcatura. Scioglie le redini, monta in sella e lentamente se ne va senza voltarsi. Per lo sceriffo non c’è più niente da fare, è morto all’istante colpito al cuore: lascia una vedova coi suoi due figli, questo stanno pensando gli astanti, o una voce fuori campo lo suggerisce. L’altra pistola di Jack è rimasta in terra nel saloon, l’oste la raccoglie e la mette in un cassetto del banco pieno di cianfrusaglie, non si sa mai, pensa, il pistolero sarebbe potuto tornare a cercarla e un tipo così è sempre meglio non contraddirlo. Intanto il maldestro avventore, quello che aveva malamente urtato Jack se ne sta seduto al bancone con davanti una bottiglia vuota di wisky che s’era presa da solo nel trambusto, i suoi occhi sono vitrei da sbronza incipiente, la testa gli ciondola e sta canticchiando sottovoce una canzone, una di quelle che i cow boy cantano nelle lunghe notti passate all’addiaccio nelle praterie davanti al fuoco.
Tutto questo s’è svolto davanti ai miei occhi, sono nel saloon, ma la realtà sembra scomporsi ancora una volta. Rivedo la palestra, il vetro che si lascia attraversare come fosse acqua, poi il patio, infine il saloon. L’alieno, era reale o tutto fa parte di questo nuovo sogno? Sicuramente qualcosa sta incasinando la realtà, come un virus nelle memorie d’un computer. Ora tutto è lattiginoso e la gravità non è più quella alla quale sono da sempre abituato. Ho uno strano abito, sembra una divisa militare e tutto attorno a me lampeggiano led multicolori. Sono seduto su una poltrona che sembra proprio un’enorme consolle. Respiro profondamente e mi rilasso. Qualsiasi cosa stia succedendo cerco di non lasciarmi prendere dal panico. Devo razionalizzare l’evento, anzi gli eventi che si sono susseguiti in queste ultime ore: il patio, l’alieno, il saloon. Non riesco a trovare un senso a tutto ciò è come se la mia vita si fosse trovata ad avere un’analoga scansione con programmi televisivi. Chi ha detto che la TV ha poteri ipnotici e che modifica la realtà con le sue finzioni? Non ricordo, ma sosteneva anche che omologava tutto e anche il tempo non aveva più un senso coerente. Scuoto la testa e mi alzo dalla poltrona, do un’occhiata alla consolle, ma non assomiglia a niente di conosciuto. Attraverso la stanza e esco all’aperto. C’è un prato vastissimo d’un verde profondo, la temperatura è gradevole e l’aria è profumata, un unico sentiero si dipana nel prato e si perde in lontananza. Lo seguo e abbandono il luogo dal quale sono uscito, fatti alcuni passi mi volto per vedere in quale costruzione si trova la stanza dalla quale sono appena venuto fuori. Alle mie spalle però non c’è niente, solo il prato. Scuoto la testa e proseguo, il sole è allo zenit ma il caldo è gradevole, sembra una giornata primaverile, questa è l’unica costante di tutta questa storia che non sta insieme neppure con la colla. La gravità. C’è qualcosa che non va nella gravità, sono certo che sia leggermente più leggera di quella alla quale sono da sempre abituato. Adesso scorgo una costruzione alla sinistra del sentiero. È una costruzione molto alta e cupa, una torre che sembrerebbe di pietra. Non mi ispira niente di buono, fortunatamente il sentiero tira a dritto e non s’avvicina alla torre, non ho nessuna intenzione di andare a vedere di cosa si tratta, l’ho già detto, non mi ispira alcuna fiducia. Cammino ancora seguendo il sentiero, sono certo che da ore lo sto seguendo, ma non provo né sete né fame e neppure stanchezza. Anche il sole non si è spostato dallo zenit. Il viottolo sale e dopo una curva davanti a me c’è una costruzione enorme. Un grande portale mi si para davanti. Due ante gigantesche di legno scolpito. Sulla soglia mi fermo, mi guardo indietro e il prato è sparito. Sono sulla vetta d’un monte, il sentiero è ora quello di montagna, circondato da massi e si vedono profondi dirupi, anche la temperatura è scesa di colpo. Mentre mi sto guardando attorno le due ante si scostano e una voce m’invita ad entrare. Tre gradini di pietra davanti a me, li salgo e attraverso la soglia. La porta si richiude silenziosamente e attorno a me un’enorme aula con colonne di pietra unite da archi. L’aula è quadrata e gigantesca, non riesco a stabilire la sua grandezza. Sotto ogni arco, tra una colonna e l’altra, una fila infinita di Buddha. Mi addentro nella sala.
-         Salve intruso.
-         Chi ha parlato?
-         Sono il master.
-         Master, di che? Vedo solo dei Buddha.
-         Come preferisci.
Una statua del Buddha scende dal suo piedistallo, l’immagine della statua a tratti tremola leggermente, ma l’effetto reale è sorprendente.
-         Adesso ti senti più a tuo agio?
-         È la prima volta che parlo con una statua.
-         Non sono una statua ma un costrutto.
-         Hai le risposte?
-         Alle tue domande?
-         Sì.
-         Vuoi sapere perché sei qui?
-         Sì!
-         Non sei qui: questa è una sacca di dati accantonati, una realtà che tu chiameresti virtuale, ma non è proprio così. Il sistema ha dovuto sciogliere alcuni nodi per favorire la propria evoluzione. Strade sono state tagliate e altre aggiunte, ora i dati scorrono veloci in pacchetti ordinati. Ma sai quando si costruisce qualcosa occorre eseguire delle variazioni, poi pian piano tutto si assesta.
-         Ma come sono rimasto incastrato in questo paradosso?
-         Non sei rimasto incastrato, sei stato costruito.
-         Non capisco.
-         I tuoi ricordi sono stati assemblati di recente, sono sopravvenute delle interferenze, ma ora tutto si appiana, devi solo pazientare. C’è stato un protocollo che non ha funzionato a dovere, ma tutto verrà ripristinato.
-         Insomma chi sono?
-         Devi ancora nascere, avresti dovuto avere una linea-piatta, ma le intrusioni hanno creato un po’ di confusione, così stai attraversando realtà incongrue.
-         Sii più chiaro.
-         Devi ancora nascere! Non l’hai capito?
-         Devo nascere? Ma cosa sono allora?
-         Un uomo no, ma lo scoprirai da solo.
La stanza immensa e i Buddha scompaiono in un vortice di pixel multicolori, un tornado che si trasforma in una girandola cosmica nella quale ogni variazione cromatica rappresenta un pacchetto di dati, anche quelli che credo siano i miei ricordi stanno sciogliendosi nel gorgo zeppo di memorie e di forze. Sento che il mio costrutto si sta riassemblando, un nuovo ordine si forma nel ganglio d’energia e di memoria che rappresenta il mio io, sto per nascere, so che dopo questo ultimo passaggio nella centrifuga saprò finalmente quale sarà il mio posto nel mondo. Nel mondo? O in quale realtà?

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