MORIRE A KANDAHAR
di Vittorio Baccelli
Bisogna amare questo mondo
Ove la vita e la morte
s’alternano incessanti
Come le nuvole fluttuanti
Procedere sul sentiero
dell’illusione
O dell’illuminazione
È soltanto camminare in un
sogno
(Dogen)
LEI, OGGI.
Questo
posto si chiama “Quaranta gradini”, è una scalinata scavata nel XIII secolo in
una montagna granitica. Guardo Kandahar dall’alto di questa collina, la città è
già calda sotto il sole nascente, circondata da una leggera nebbia che la rende
irreale. Sono tornata qui a cercarlo, ho seguito le sue tracce fino a quella fu
una fortezza sovietica, il suo alloggio era interamente distrutto, mi hanno
detto che lui era ferito, in convalescenza lì dentro quando è stato colpito, ma
non sono mai stati ritrovati i suoi resti. Il silenzio dell’alba è rotto solo
dal canto d’un gallo e in lontananza s’ode un raglio d’asino, tutto qui sembra
esser tornato alla normalità, rimangono solo ben in vista le macerie, ricordi
d’una guerra infinita, oggi solo sospesa. Prima di quest’ultimo conflitto i
predoni e i signori della guerra scorrazzavano padroni delle strade del
deserto, i taliban annientavano qualsiasi speranza di felicità mentre le
Nazioni Unite erano indifferenti verso la sorte dei profughi. È una città di estremi,
un luogo di uomini e armi, auto di gran lusso e bambini che muoiono di fame.
Nel pomeriggio s’avverte un caldo secco e asfissiante che cancella pure i
colori del paesaggio, che rende grigio il deserto circostante e avvolge in una
leggera foschia gli edifici diroccati del centro. Le donne sono praticamente
assenti, quasi non se ne scorgono se non nelle loro abitazioni. Sono state
liberate? Eppure le pochissime che girano sono in compagnia di uomini e portano
ancora il burqa, le chiamano ancora “teste nere”, io sono vestita
all’occidentale e gli uomini evitano il mio sguardo.Le poche che non indossano
il burqa portano una lunga veste nera in stile arabo con uno scialle che copre
anche il volto ad eccezione degli occhi. Gli uomini più ricchi e potenti guidano
auto giapponesi ultimo modello, possiedono televisori con cento canali
satellitari, tutti siti porno e il resto è musica, attraversano frequentemente
il confine col Pakistan per le loro attività di contrabbando, droga
soprattutto. Se è vero che questa terra è stata liberata dagli alleati,
Kandahar non costituisce certo una buona pubblicità per l’occidente. I poveri,
anche vecchi e bambini, sopravvivono a stento chiedendo l’elemosina o facendo i
lavori più umili, spezzandosi la schiena sollevando per intere giornate pesanti
carichi di legno, di ferro, di rottami, di tappeti. Il governatore di qui l’ho
incontrato più volte nella mia inutile ricerca, ha il volto grasso orlato da
una barba imponente, si dice possa disporre di un numero consistente di uomini,
era un taliban è divenuto in tutta fretta un alleato col suo seguito. Questa è
oggi la Kandahar del dopo-taliban, in superficie sembra il regno della legge e
dell’ordine. I comuni interessi e la presenza americana riescono a mantenere lo
status quo. Le forze speciali USA attraversano le strade sui loro veicoli
impugnando pistole e armi automatiche, vestiti in jeans e giacche mimetiche
sopra camice dai colori sgargianti. Gli abitanti accettano la presenza
straniera, i soldati comunque si muovono con estrema attenzione, i primi tempi
hanno subito alcuni attentati mai rivendicati. La base alleata si trova dentro
l’aeroporto, un grande recinto la separa dal deserto, all’interno vediamo
caserme prefabbricate circondate da elicotteri Apache, fuoristrada e tank
parcheggiati, gabbie per prigionieri e antenne radio dalle strane fatture che
sovrastano le costruzioni militari. All’aeroporto la bandiera americana
sventola sopra quella europea, qui sono ammessi solo i voli militari,
diplomatici e quelli dell’ONU. Sulla
piazza principale della città c’è un monumento ai caduti della 2a guerra
anglo-afgana, in un angolo un’iscrizione ci dice “In onore delle anime
coraggiose che hanno combattuto per la libertà e l’indipendenza”, è un ricordo
del passato della città quando quaranta chilometri più a ovest, in pieno
deserto l’armata britannica fu sconfitta. Kandahar prima capitale di questo
martoriato paese un tempo fu luogo di amore, cultura, ricchezza, musica e
poesia, la fama dei suoi giardini fioriti era nota in tutto il mondo. Giro
sconsolata in questo centro un tempo bellissimo alla ricerca delle sue tracce
ormai scomparse nel fuoco della guerra, avverto la sua presenza in questi
luoghi, ma è come se alte barriere mi separassero da lui. Non voglio
dimenticarlo, voglio vivere nel suo ricordo, era molto legato a questa terra e
sento il vincolo ancora forte e presente.
LUI, UN ANNO PRIMA.
È un tabacco allucinogeno,
si tiene in bocca e al momento giusto si mastica: qui i combattenti lo usano
tutti. Mi trovo al primo piano di una costruzione in cemento che chiamarla casa
è un eufemismo. La stanza ove giaccio è squadrata, c’entra appena il letto e
una consolle, c’è una porta che dà in una cucina e in un bagno, la finestra
rettangolare di fronte a me ha l’apertura chiusa con un telo di plastica
trasparente fissato a ciò che rimane dell’intelaiatura con listelli di legno.
Le pareti sembrano raschiate e i colori originali, se c’erano, sono stati grattati via da tempo, si notano
anche mille piccole crepe. Qui tutto è precario anche questa casamatta in
cemento armato ricavata all’interno di una fortezza che si va pian piano
sgretolando. Ricordo d’aver girato a piedi qua attorno tra i blocchi di cemento
e i rottami dei mezzi corazzati, ma adesso sono immobilizzato nel letto e mi alzo
sempre più a fatica. Sono a Kandahar, città un tempo di sogno, meta agognata
d’hippies occidentali alla ricerca dell’afgano nero “buon fumo signori da
queste parti” erano tempi di pace, tempi di monarchia. Qui nell’Afganistan
meridionale questo era il vero centro commerciale del paese, immerso in una
fertile pianura ove si coltivano droghe, frutta e cereali. Siamo a più di mille
metri d’altezza e seta cotone e lana vengono ancora prodotti, ma assieme alla
guerra è giunta la siccità e molte coltivazioni sono bruciate al sole
impietoso. Così come oppio e canapa,
anche questo tabacco allucinogeno che tutti masticano è un prodotto
locale. Oggi la grande base militare che fu costruita dai sovietici sembra di
nuovo abbandonata, i razzi l’hanno colpita infinite volte durante gli eterni
combattimenti di questa strana guerra, una guerra ove i confini da difendere
passano dappertutto, anche nel resto del mondo, si dipanano pure all’interno
delle nostre coscienze. Il tabacco fa ad ondate il suo effetto e lo stordimento
che mi colpisce è saturo d’allucinazioni che traggono origine non dalla mia
fantasia ma da situazioni reali. Rivedo l’aereo che prima dell’attacco vola in
circolo ad alta quota sopra gli obiettivi, un aereo con ali normali non a delta
come quelle dei caccia. Si tratta d’un veicolo da ricognizione è un gioiello
d’elettronica che disturba le comunicazioni e manda in tilt tutti i sistemi di
difesa avanzati. Un po’ come il tabacco allucinogeno che manda in tilt tutte le
menti che lo usano. Durante il sorvolo di questo aereo non c’è verso di far
funzionare i satellitari, tutte le comunicazioni elettroniche se ne vanno in
crisi. Dopo questo aereo “diverso” arrivano i bombardieri che sfrecciano in
coppia volteggiando sugli obiettivi come avvoltoi sopra la preda. Talvolta
arrivano all’improvviso in quattro, in coppie di due. Ogni venti minuti esatti
si riesce a seguire con facilità le loro picchiate col binocolo. Si scorgono
perfettamente i serbatoi supplementari dei caccia e anche tutto l’armamentario
bellico che trasportano sotto la pancia. Ronzano, come queste mosche che stanno
girando attorno alla mia testa, alzo un braccio per scacciarle, ma il braccio
destro è fasciato, mi rendo conto che non posso usarlo. A fatica le scaccio con
la sinistra, anche la mia testa è bendata, non riesco a ricordare cosa mi sia
capitato. Questo non è un ospedale, è un appartamento ricavato all’interno
della base militare, sono stato forse dimesso? Ma come sono giunto qui? Sono
nuovamente sotto l’attacco alleato, la contraerea spara raramente, solo prima e
dopo l’attacco, credo che quando cominciano a cadere le bombe i taliban corrono
a nascondersi in qualche loro stramaledettissimo buco per riuscir fuori quando
l’attacco è cessato.Comunque i botti sordi dei traccianti si disperdono nell’aria
senza far neppure il solletico ai piloti alleati. Gli aerei sono F18 col
caratteristico muso appuntito e gli F15 americani che sganciano bombe da 250 e
500 chili: in distanza si vede il bagliore dell’esplosione mentre lo scoppio è
portato via del vento. È buffo trovarsi vicinissimi all’inferno e veder tutto
come in un film muto. Sul tetto della postazione i mujaheddin servono il tè ben
contenti della presenza della stampa di tutto il mondo. Le bombe che cadono
sono tozze o lunghe, bitorzolute con corte ali in coda. Passano fuoristrada con
vetri oscurati, dicono che dentro vi siano osservatori USA, ma gli automezzi
sono inavvicinabili. Dai tetti improbabili giornalisti muniti di telescopici
cannocchiali guidano le bombe intelligenti sui bersagli. Se fossero veramente
intelligenti non esploderebbero, qualche collega aveva lanciato la facile
battuta, ma forse non sarebbe intelligente non bloccare questo islam che ha
imboccato la strada della più pericolosa follia e va fermato a tutti i costi.
Ho comunque il sospetto che i maomettani siano fin troppo furbi, queste ultime
guerre le fanno fare a noi occidentali evitando di farle loro in prima persona.
Ma questo gioco fin quando potrà durare? Ricordo ancora Bagdad quando i razzi
la illuminarono d’uno spettrale bagliore verde prima dell’attacco e bengala
luminosi giravano in circolo sul cielo della città come poiane alla ricerca
della preda. Ricordo Kabul quando prima che si scatenasse l’inferno girarono
quelli strani aerei ad alta quota. Ricordo l’attacco alle torri e ho davanti
agli occhi l’intera sequenza che scorre come una proiezione di dia. Non ricordo
però come sono giunto qui a Kandahar e non capisco perché mi trovo in questa
stanza in cemento armato che si sta sgretolando come la mia mente, come questo
intero paese colpito dalle guerre e dalla siccità. Sicuramente sono qui per
scrivere, mandare articoli sulla situazione e preparare racconti. Sento delle
esplosioni e delle raffiche di mitra, non so però se provengono dalla realtà o
dai miei ricordi. Mi trovo estremamente confuso e fuoriluogo bloccato in questa
fortezza costruita dai sovietici quando loro morivano per difendere anche la
nostra civiltà, qualcuno allora lo disse, ma non fu capito. Oggi anche la
barbara pulizia etnica dei serbi comincia ad assumere ai miei occhi un’ottica
diversa. Gli integralisti avevano già dichiarato guerra al mondo intero ma noi
non l’avevamo capito. Adesso che le nebbie hanno iniziato a diradarsi impotenti
guardiamo gli enormi danni fatti e le morti inutili. Il fanatismo religioso è
identico a quello politico, è follia pura. Ma cosa ci faccio in questa
fortezza, sono solo? Perché non c’è nessuno? Sono immobilizzato in un letto,
questo è un dato di fatto. Ci sono delle esplosioni e delle raffiche non molto
lontano, altro dato di fatto. Non posso essermi fasciato da solo, e non posso
neppure essermi messo in questo letto da solo. Ricordo però che giravo in
questa abitazione e qui attorno: allora io abitavo già qui, mi hanno ferito e
sono stato curato e messo a letto …o no? Dunque qualcuno sta provvedendo ai
miei bisogni, prima o poi tornerà. Forse gli effetti allucinogeni del tabacco
stanno perdendo i loro frutti, sono preoccupato e sento la battaglia spostarsi
sempre più vicina, chiudo gli occhi, ho paura. Tutti percorriamo strade diverse
che talvolta s’intrecciano e poi nuovamente divergono. La strada è anche la
vita, la mia strada mi ha portato fin qui. Ho percorso innumerevoli cammini, ho
parlato, ho scritto, ho inventato nuove strade: quelle reali s’intrecciano con
quelle fantastiche. Nel ventesimo secolo tutti i tentativi d’uccidere la strada
sono falliti. Cento anni fa la strada per molta letteratura era sinonimo di
qualcosa d’orribile, una sorta di grande bestia incontrollabile, l’animo più
bruto delle genti. L’architetto fascista metteva le strade in secondo piano per
dar spazio alla creazione di grandi piazze per contenere e controllare milioni
di persone. All’urbanista Robert Moses a New York dissero d’uccidere la strada
e lui lo fece come meglio sapeva, ma in realtà ammise lui stesso d’aver
fallito. Costruì tre grandi passaggi: Canal Street e la 34a strada a Downtown,
la 125a a Harlem. Ma lui ne avrebbe voluto fare a dozzine per maciullare la
città. Non ci riuscì perché la gente più diversa scese in piazza. Le torri gemelle
avevano completamente distrutto le strade di quel luogo alterandone
prepotentemente la viabilità. L’attacco ha azzerato Manhattan, la ricostruzione
è incerto se ripristinerà le vecchie strade, l’unica cosa sicura sembra essere
che le torri non verranno mai ricostruite. Siamo nella fase in cui la strada
ricomincia a essere rivalutata per quello che è: la massima risorsa d’una
città. L’essenza dell’idea democratica di strada, dicevano Baudelaire e
Dostoevsky, è che è il luogo ove la gente si può mescolare. Le città che
verranno avranno strade con molti internet caffè. Alcuni tempo fa avevano
previsto che con lo sviluppo delle comunicazioni la strada sarebbe morta perché
la gente avrebbe d’ora in poi parlato di più ma senza incontrarsi. In realtà lo
sviluppo prima del telefono, poi della radio, dei registratori, dei fax, della
tivù, dei computer e dei cellulari non ha distrutto il desiderio di parlarsi
faccia a faccia. Le strade non sono divenute deserte. La gente manda e-mail e
guarda la tivù, ma ancora s’incontra. È tutt’ora viva. Almeno fino a quando
mercato e governi lo permetteranno. L’internet caffè può essere il modello di
questo inizio perché rappresenta la volontà di comunicare in ogni direzione,
con chi beve un caffè e con chi stiamo parlando con posta elettronica. Bisogna
che fermi queste idee, che le trasferisca al più presto su carta o nastro
magnetico, con queste basi posso realizzare almeno tre articoli, ma cavolo! Non
riesco a muovermi… La strada, percorso fisico, metafisico e culturale dall’On
the road di Kerouac al Dr. Adder di Jeter passando per Roland Deschain di
Gilead di Stephen King. Nel Dr.Adder la strada è la ricerca del punto di
fusione del reale, il momento in cui la materia sublima nell’informe e
malleabile immagine in una ossessione paragonabile agli orologi molli di Dalì.
La strada corre attraverso le ambivalenze della megalopoli, un assieme
d’urbanizzazioni che ambiscono a riconoscersi nel nome di una città che per
divenire allegoria d’una civiltà decadente non ha bisogno d’altro che d’essere
raccontata. La strada diviene un’interfaccia che non è quella del cyberpunk tra
uomo e macchina, ma una sorta di zona franca che evidenzia l’esistenza d’un
attrito trai desideri e la loro ammissibilità sociale. L’interfaccia è un
organo che s’innerva coi suoi vicoli rizomatici nel corpo di due entità
contrapposte, la megalopoli futura e le campagne abitate da una borghesia
autentica. Qui nella strada si svela l’ipocrisia d’entrambe le identità sociali
e i desideri più imbarazzanti si realizzano, proprio qui nel territorio negato
d’una strada, di un qualcosa che non esiste se non come luogo di passaggio, di
fuga e, quindi privo di tradizioni e memoria. Nelle nostre vite la realtà
comunemente percepita passa attraverso un filtro di coerenza e di
ammissibilità. Nella strada di Jeter si perde questa descrizione strutturale, i
filtri del sistema percettivo vanno in tilt, s’ingenera così una verità sempre
più vasta di realtà contigue che fanno irruzione nel nostro sistema neurale.
Tutto può accadere, tutto è vero. La realtà corrente diviene indistinguibile da
quella percepita e perciò risulta più privilegiata e dà origine a fenomeni
cancerogeni che traggono il loro accadimento iniziale dalla schizofrenia
morale. Nell’interfaccia, cioè in questa strada la tematica del corpo non è più
biologicamente e geneticamente assoluta, viene ribaltata dalla attività che il
dr. Adder vi svolge, la sua attività dà forma ai desideri e agli incubi ormai
coincidenti in una amica chirurgia e pulsione libidinosa d’ogni strato sociale.
Il corpo rimodellato grazie alla chirurgia è dotato di nuovi attributi e da
questa strada è rimesso in circolazione. Mutilazioni, innesti protesici,
tatuaggi, piercing, perforazioni, tutto diviene un’idea di corpo pronta ad
assumere un’identità sociale non predeterminata. Si restituisce qua la
prevalenza al potere generante del desiderio, facendolo apparire eversivo,
poiché nasce da una insicurezza istituzionale che si contrappone all’ipocrisia
delle convenzioni sociali e che ristabilisce nelle differenze portate ai loro
massimi estremi, i nuovi termini per una dialettica sociale.
Scivolo a questo punto nel
sonno, o già dormo da tempo mentre le sostanze allucinogene stimolano pensieri
e ricordi. Mi risveglio di soprassalto e so d’aver sognato cose terribili, ma
fortunatamente il ricordo degli incubi scompare, resta solo una sensazione di
disagio, un amaro in bocca e dolori in tutto il corpo.Ho anche avuto buone
intuizioni per pezzi giornalistici fantastici, bisogna che le mantenga vive
nella mia mente finchè non riesco a fissarle su carta. La luce è quella incerta e lattiginosa del
primissimo mattino, sono sempre solo in questa stanza immobilizzato sul letto.
Odo ancora colpi di fucile in lontananza. Avverto solo parzialmente il mio
corpo: la testa pulsa sul dietro ove devo essermi ferito, anche la mano destra
è dolorante e non posso muoverla, le bende sono pulite, qualcuno deve averle
cambiate mentre dormivo. Dalla cintola in giù non ho alcuna percezione, a
fatica mi sollevo un po’ dal giaciglio e vedo la sagoma delle mie gambe distese
sotto le vecchie coperte militari che ho addosso. Fa freddo, molto freddo e i
miei denti battono. Avverto la presenza di qualcuno in cucina e vorrei
chiamarlo, dirgli di portarmi qualcosa da bere e un po’ di tabacco allucinogeno
che ho finito e mi attenua i dolori portando i miei pensieri lontano da questa
squallida fortezza, voglio anche penna e carta per scrivere. Ma la voce non
esce dalla mia bocca, è come se le corde vocali si fossero paralizzate. Sono di
nuovo in preda al panico e mi agito più interiormente che fisicamente, vedo la
strada della mia vita ed io che la percorro a velocità supersonica fino a
ritrovarmi qua a Kandahar in questo letto e improvvisamente una testa nera
appare dalla porta della cucina, è interamente ricoperta da un burqa azzurro. È
la mia infermiera penso, e inizio a rilassarmi. Lei si avvicina e si toglie
lentamente il burqa, sotto è nuda, resto stupefatto a guardarla, è una giovane
bellissima donna: gambe ben tornite, piedi con unghie laccate, pelo pubico
rasato completamente che lascia vedere una fessura amorevole, giro vita
incredibile, fianchi rotondi e sodi, seni piccoli ma dritti e a punta con due
capezzoli bruni eretti all’inverosimile, collo lungo, faccia ovale con labbra
carnose d’un rosso smagliante, capelli neri con riflessi bluastri e leggermente
ricci, braccia e mani esili ma forti con unghie ben curate smaltate delle
stesso rosso provocante di quelle dei piedi, è anche la stessa tonalità di
colore delle labbra. Mi soffermo su questa visione incerto se sia reale o un
altro effetto della droga, sono sorpreso, eccitato, emozionato, lei mi fissa
coi suoi occhi rotondi, neri, magnetici che all’improvviso divengono di rosso
fuoco, un rosso così simile a quello delle labbra e della lacca sulle sue
unghie. La cosa mi turba e mi spaventa capisco che questa non può esser altro
che un’apparizione, nessuna testa nera musulmana si toglierebbe mai il burqa
davanti a un occidentale sconosciuto e per di più ferito e immobile su un
letto. Si avvicina e comincia ad accarezzarmi, sento le sue mani leggere e il
suo profumo, all’apparenza piacevole ma con un sottofondo inquietante, è un
leggero aroma chimico mescolato all’odore di morte. È sempre più vicina e
l’odore è di ospedale, di formaldeide, di camera mortuaria, i suoi occhi sono
di fuoco, lasciano vedere le fiamme che bruciano all’interno di lei.
Incredibilmente cessa la mia paura e gli odori tutti si mescolano finchè uno
resta prevalente: l’odore di zolfo. Mi sta togliendo le bende, una ad una e
riesce a farlo senza farmi alcun male. Mi scopre e mi accarezza, struscia le
sue labbra sulla mia pelle e sono caldissime, o lei è febbricitante o io sono
congelato. La pelle torna pian piano sensibile ai suoi tocchi, alle sue
carezze, alle sue stimolazioni. Sono nudo, sdraiato completamente su questo
giaciglio, lei si siede a gambe aperte sopra di me guidando la sua
penetrazione. Vengo quasi istantaneamente e nel mio ventre si forma una sacca
di calore che si sposta dentro di lei, vampe di fuoco mi avvolgono raggiungendo
anche quei punti che credevo ormai insensibili, i suoi occhi ora socchiusi, si
riaprono fiammeggianti come non mai, l’odore di zolfo è al culmine, le
esplosioni si suggono sempre più vicine. La sua bocca è poggiata sulle mie
labbra, si apre e la bacio infilando la lingua entro di lei, il fuoco entra ora
anche nella mia bocca e si congiunge al fuoco delle mie viscere. Le ferite
istantaneamente si riaprono e vermi ne schizzano fuori spinti dalle fiamme
interne che hanno invaso il mio corpo, l’odore è nauseabondo, la ragazza è
anch’essa ricoperta da fiamme e le sue unghie si sono trasformate in artigli
che stanno dilaniando il mio corpo. L’esplosione avviene all’interno della
stanza ove giaccio, forse una granata a frammentazione, la riconosco dal suono,
seguono altre esplosioni in sequenza e l’interno della stanza ove giaccio è
invaso dal fuoco, tutto si disintegra liquefacendosi nel calore e nell’odore di
zolfo, vedo come ultima visione tutte le strade della mia vita che collassano
all’interno della stanza che poi esplode scaraventando nell’atmosfera frammenti
di cemento misti ai brandelli della mia carne,
ai miei ricordi e alle mie allucinazioni.