BOCCOLI D’ORO
di Vittorio Baccelli
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Si trascina col
suo sacco dietro a quella catasta che è stata da poco eretta: pezzi
d’interfaccia, schede madri, grappoli di chip, tutto è confusamente mescolato e
poi gettato, ora lei deve raccogliere ciò che sarebbe servito. I raccoglitori
costruiscono anche molti oggetti d’uso corrente e li ottengono modellandoli dai
fogli ribattuti d’antichi circuiti stampati, sono superfici rigide dall’aspetto
fragile, strati di tessuto sintetico intrappolati in resine fenoliche di color
verde. Ogni foglio originario è caratterizzato da una monotona mappatura
metallica che ricorda la topografia urbana. Li prendono guarniti dei componenti
che vengono poi facilmente eliminati coi saldatori che lasciano strinature sui
fogli con su la lamina la mappa intarsiata da città immaginarie, residuo di
molteplici generazioni elettroniche. Sono fogli immortali, inerti come pietre
capaci di resistere all’umidità, agli ultravioletti e a qualsiasi altra forma
di decadimento, destinati ad inquinare il pianeta e, qui meglio utilizzati e
rilavorati per costruire qualsiasi oggetto d’uso corrente.
Costa meno gettare che riciclare e da questi
componenti abbandonati, lei trae guadagno. Rovista trai rifiuti alla ricerca di
un tesoro, ma questo è fuggevole non si lascia facilmente trovare, in compenso
oltre ai fogli immortali trova alcuni circuiti che ben conosce e sa esser
rivendibili, altri potranno esser riparati, così si guadagna la vita e il sacco
comincia a riempirsi mentre continua a rovistare in quest’area da tempo
trasformata in un’abusiva discarica incontrollata di materiali informatici
dismessi.
Con stupore si trova davanti alla scatola, non è
metallica, ma di una qualche materia plastica gradevole al tatto e non fredda:
il colore è indefinito e sottili arabeschi girano attorno alla scatola
confondendo la vista sulla sua reale forma.
Sarà stata gettata per sbaglio, è il suo primo
pensiero. Afferra con delicatezza il manufatto e lo solleva all’altezza degli
occhi, le sottili linee confondono la vista, la scatola è leggera, non presenta
aperture visibili, la scuote e qualcosa all’interno si sta muovendo. La
sbatacchia con più forza e chiaramente si sentono alcuni oggetti al suo interno
spostarsi. Sembra una piccola bara, una bara arabescata? Per cosa? Forse
conterrà una bambola, o un paio di stivali, o un giocattolo, chissà.
Cerca inutilmente un’apertura, la scatola pare
proprio priva di coperchio. La mette nel sacco assieme all’altro materiale
recuperato, frutto del lavoro di ricerca di un'intera giornata e, si dirige
verso la sua abitazione buttandosi il sacco sulle spalle. Dopo mezzora di
cammino, gira attorno ad un antico fabbricato a più piani sito ai margini della
discarica. È una dimora costruita con quella pietra artificiale che gli antichi
usavano comunemente, si ferma davanti alla porta blindata d’ingresso e sibila
il suo nome: “Rufina”. Il portale la riconosce e si schiude con uno scatto.
Entra, sempre col sacco in spalla nell’umido androne e, una porta di servizio
che da sul sottoscala s’apre cigolando. Si guarda attentamente attorno:
l’ingresso è vuoto, fiocamente illuminato da lampade fluorescenti tremolanti,
il pavimento chiazzato in più parti dall’acqua che goccia dal soffitto è
sgombro, gli unici rumori che ode, sono quelli consueti di sottofondo dei
servomeccanismi del condominio. Solo dopo essersi accertata che non vi siano
intrusi, decide d’entrare, dal sottoscala si scende nella cantina del palazzo e
lei si reca nella sua stanza, un gran locale seminterrato a fianco
dell’impianto di climatizzazione centralizzato. Questa è la sua casa, qui si
trovano le sue cose, un letto, un tavolo, alcune sedie, scaffali, un piano per
la realizzazione e il recupero degli oggetti, c’è poi un rudimentale bagno e un
cucinotto di fortuna.
Svuota il sacco sul piano che è in vero legno e
delicatamente prende la scatola, cerca d’aprirla con ogni mezzo usando la sua
attrezzatura, ma niente sembra poterla
forare, non è possibile neppure scalfire quell’oggetto. Anche le scansioni
risultano impossibili.
Lei è perplessa, posa infine la scatola sul tavolo
liberando lo spazio attorno ad essa, le si siede davanti osservandola
attentamente. La sta fissando sempre più intensamente e pensa che adesso che è
ripulita, è veramente bella: splende, infatti, d’un colore azzurro con tonalità
metalliche più scure e, gli arabeschi si animano alla fioca luce dell’ambiente.
Mentre l’osserva quasi si sente assopire, prende uno straccio per finire di
ripulirla e, più la strofina, più sembra rilucere e aumentare la propria
bellezza. Lentamente appare la fessura d’un coperchio e un lato della scatola
inizia a spostarsi in diagonale e lei lo sta osservando incuriosita.
“Lo sapevo! C’è una bambola dentro!” Il coperchio
scivola lentamente sul tavolo e all’interno c’è il corpicino d’una minuscola
bambina riccamente vestita, ma forse è una bambola…
Mentre sta incerta pensando quale delle due cose si
trovi davanti a lei, i vestiti si sfaldano in polvere e, anche le scarpe
minuscole, poi tutto il contenuto. Lei tossisce perché la polvere s’è dispersa
per l’ambiente: pian piano si posa e l’aria ritorna chiara. All’interno della
scatola è rimasto solo un piccolo teschio con pelle e cute ancora fissate e
incartapecorite, sembrano cuoio. Dei riccioli biondi sono attaccati al cuoio e lei adesso sa, era una
bara e questa è la testa d’una minuscola bambina grande quanto una bambola.
Prende delicatamente il piccolo cranio con il volto unito, ormai cuoio e, con
esso i boccoli d’oro: delicatamente lo posa sul tavolo, accanto alla scatola.
Si alza e da una cassapanca piena di cianfrusaglie
elettroniche e di giocattoli rotti estrae una bellissima bambola in ceramica,
vestita di seta e piena di ninnoli. Sbatte con violenza la testa di ceramica
contro uno spigolo del tavolo. La testa della bambola esplode e i tasselli del
volto giacciono sul pavimento anch’esso della pietra artificiale degli antichi.
Si china e raccoglie tutti i piccoli pezzi, li ammonticchia accanto alla
scatola, sul tavolo c’è anche il coperchio, il piccolo teschio dai boccoli
d’oro e la bambola decapitata.
Prende un flacone di supercolla e versa alcune gocce
sul piccolo sostegno di legno che teneva il volto della bambola, prende poi il
teschio coi ricci e lo infila con forza nel sostegno. Lo fissa perfettamente,
poi rassetta gli abiti della bambola. La sua bambola di ceramica ha ora per
testa il teschio coi boccoli d’oro.
Si siede e con la supercolla fissa pezzo per pezzo i
frammenti ceramici del volto sul piccolo teschio. Lavora a lungo, usa anche la
pasta al silicone e vari pigmenti, getta via i finti capelli lisci della
bambola e infine dopo ore di lavoro contempla la sua opera.
La bambola è perfetta, la rottura della ceramica è
ora invisibile, i riccioli d’oro sono autentici e si direbbe che da sempre
abbiano fatto parte di quella bellissima bambola dagli occhi di cristallo
verde.
“Figlia mia come sei bella!”, dice mentre con un
sottile pennello sta provvedendo agli ultimi ritocchi. Finisce il lavoro, si
ciba con una razione militare, beve della coca presa dal frigo, direttamente
dalla lattina: la bambola dai ricci d’oro è sul tavolo seduta davanti a lei.
Se la porta dietro al bagno ove si libera e si
prepara per la notte. Si getta nuda sul giaciglio e dorme a lungo abbracciata
alla bambola, alla sua bambola, alla sua figlia, al minuscolo teschio dai
boccoli d’oro.
Sogna la discarica e una fata bionda (o è una strega?)
che lascia la scatola lì per lei, perché la ritrovi, affinché il suo contenuto
possa essere riportato in vita: perché questa è sua figlia, la sua unica figlia
dai boccoli d’oro.
Mentre lei sogna, la bambola dai boccoli d’oro si
porta una mano dietro il collo e tira leggermente verso l’alto qualche
ricciolo, come se i suoi capelli fossero molle minuscole sulle quali dovesse
eseguire una prova di compressione, contemporaneamente il volto ceramico della
bambola sembra sorridere e tra le sue labbra s’intravedono piccoli, aguzzi
denti.