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“L’ABBRACCIO, L’ATTIMO, FUGGENTE”

 di Giovanni Gruosso
Una raccolta di delicate poesie del preside dell’I.T.I. di Melfi

La poesia, “divina mania”, si sa, ha il potere di evocare sentimenti, emozioni, sensibilità, che spesso “ossessionano” l’autore. Difficilmente l’autore scrive per la voglia di scrivere, ma, pur scrivendo “per sé”, come sosteneva Sartre, è mosso dal desiderio di comunicare qualcosa di indicibile, nascosto nell’anima da sempre eppure “perturbante”.

Lo fa ricorrendo ad  immagini che richiamano delicati vissuti generali, universali, conditi da un pathos personale, dinanzi ai quali il lettore non rimane indifferente, ma si commuove, si lascia toccare il cuore (come l’eredità crociana ci suggerisce).
Fosse per questo, la lettura della più recente raccolta di versi”L’abbraccio, l’attimo. Fuggente”, edizione GAM Roccapiemonte (SA), in edizione fuori commercio di Giovanni Gruosso, Preside dell’Istituto Tecnico Industriale di Melfi, ci avrebbe accomunati ai tanti lettori che da anni seguono i suoi scritti poetici. Non ci siamo accontentati di credere che l’autore volesse raccontare verità in modo palese. Abbiamo usato una chiave interpretativa non  scontata per entrare nel racconto poetico di Gruosso, che si lascia tentare dalla intenzione di nascondere i suoi sentimenti, coprendoli solo in superficie, per meglio occultarli, come insegnava Lacan nel Seminario sulla “lettera rubata”. Questo intreccio, tuttavia, finisce col rivelare tre filoni evocativi di tematiche che non gli devono essere proprio estranee.
Il primo indizio è che tutta la produzione è scandita da un riferimento tanto insistente quanto incerto, dubbioso all’amore. Per chi? Mi domando. Per la donna amata. Sono tante le figure femminili proposte e innominate. Di certo lo snodo ricorda la teoria di Mattè Blanco espressa ne L’inconscio come insiemi infiniti, cioè la  catena di reazioni impercettibili che uniscono il filo segreto di un’anima che ama, forse, un passato rimosso.
Il secondo scavo mostra che le poesie si infittiscono di giochi linguistici, facendo dell’autore un seguace di Wittgenstein: ne  L’abbraccio, l’attimo fuggente si esprime con un “navigo in un mare senza vele/ potrei approdare se ci fosse  un porto”. Il ritmo cadenzato sta ad indicare “ciò che è essenziale/ È, o potrebbe essere, forse”. Nella poesia Ragazzo sogna continua: “Ti chiederai, cercherai, ma resterai con le idee confuse” e ancora “Mare mare che ci stai a fare/ sei troppo grande per poterti abbracciare”. E, in Tu non c’entri : “L’hai voluto tu, la colpa è mia… / mettiamola così; una, più parole per incontrarsi/ saranno poche, tante? Saranno quelle giuste?/ difficile dirlo forse in una notte senza cielo”.
Appare evidente che per l’autore il linguaggio non può essere oggetto di una teoria sistematica perché condenserebbe una varietà di emozioni e di pratiche. Il linguaggio, in altre parole, è plurale e questo significa che in esso agiscono regole, scopi che possono essere assimilate a quelle dei giochi. La sua validità (non necessaria alla poesia) può essere controllata dai rapporti pubblici, intersoggettivi, ma mai dai singoli soggetti.
Il terzo tassello interpretativo è l’approdo, la logica conclusione in uno sperdimento che ricorda l’atmosfera de Il castello di Kafka. L’autore lotta con il tentativo di fare chiarezza, di affermare la propria personalità, rifiutando qualsiasi arbitro nella sua vita. Forse, in una dimensione mistica, ci sarebbe possibilità di quietudine: Dio ( o chi per Lui) all’autore come a K. ha lasciato aperta una porta ma Gruosso confessa di non saper pregare e dice infatti “Sento che c’è qualcosa/  che non conosco, mi sfugge/ il cielo è sempre lì/ indifferente
non ha lacrime” ( dalla poesia Non so pregare).
Ogni parola diventa così superflua, ogni parola è silenzio. Insomma solo chi dice e s-dice, chi apre al desiderio di giungere al nulla, all’intravedere quello che non c’è, a ciò che instancabilmente si contraddice, può custodire l’idea di una impossibile felicità.

di Antonio Libutti

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