Lo slogan gridato a gran voce durante la manifestazione di sabato a Firenze e che echeggia in molti simposi tra intellettuali è che si possa essere di parte anche se pacifisti. E’ senza dubbio il motto, molto furbo, del momento.
Frase ovvia, visto che il pacifismo è per sua natura parziale, parteggiando sempre e comunque per la risoluzione non violenta o comunque meno violenta possibile di un conflitto, anche se bisogna mettere in dubbio categorie apparentemente scontate di buoni e cattivi, vittime e carnefici. E’ bello vedere un’opinione pubblica schierata così apertamente verso posizioni di giustizia, appoggiare il più debole, ma quanto una simile ondata emotiva durerà e soprattutto il racconto dei fatti di guerra non è spesso concausa, o magari effetto di tale onda? Sinceramente vivo con difficoltà il presente, non perché il male non mi sia palese, ma perché i suoi confini, le sue radici mi sfuggono, non riesco a cristallizzarle in una granitica certezza e questo mi sconcerta. Ad esempio non capisco quanto il dolore possa essere alimentato nella ricerca di un bene superiore, quanto la difesa sia provocazione, quando la provocazione divenga attacco. Temo la spirale incontrollabile che mosse diplomatiche guidate da logiche militari ed economiche possano innescare, ma soprattutto temo che quando l’onda si smorzerà e accadrà presto perché, come noto, il cuore è vicino al portafoglio e viceversa, le vittime lo diventino una seconda volta. E’ già successo in Afghanistan, perché non potrebbe accadere con il popolo ucraino?Marco Lombardi
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