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📰 L'Opinione di Marco Lombardi: Tollero ergo sum

Il medagliere olimpico italiano è l’occasione per riproporre un tema di dibattito piuttosto ostico nell’epoca del villaggio globale, vale a dire il concetto di cittadinanza. A memoria si ricorda l’anno millenovecentonovantasei, in carica il governo Prodi I e all’opposizione la lega di Bossi lontana dai fasti del recente passato. Una ragazza di colore, cittadina italiana nata a Santo Domingo si aggiudica, con decisione assai discussa, il titolo di Miss Italia, scatenando sui giornali, non essendoci ancora i social, un dibattito aspro e spigoloso. Sono passati venticinque anni, durante i quali il tema è riemerso più e più volte, specialmente nel sport e ancor più specialmente con riguardo a campioni delle rispettive discipline. Solo per fare gli esempi più eclatanti, Andrew Howe e la staffetta femminile della 4X400 nell’atletica, Balotelli ed El Shaarawi nel calcio. Che poi sono in effetti “gli” esempi, visto che, spaziando in discipline meno note, pensiamo alla nazionale giovanile di cricket composta da ragazzi dello Sri Lanka e del Pakistan alcuni dei quali senza passaporto italiano, o ad atleti meno importanti, il dibattito non si crea neppure e questo perché manca la forza di una delle due spinte che dovrebbero controbilanciarsi e a mancare, purtroppo, è quella dell’integrazione. Questo spiega perché il consenso assai diffuso che hanno raccolto le dichiarazioni del presidente del Coni Giovanni Malagò, vale a dire un concetto più inclusivo di cittadinanza, si sgretola e si disperde ogni qual volta un esponente politico pronunci le fatidiche parole ius soli. E’ il sintomo di una sindrome che noi italiani, o almeno una nostra componente non indifferente e probabilmente neppure tanto minoritaria, non riesce a scrollarsi di dosso e cioè quella di sposare il concetto di integrazione con quello di tolleranza, che non è però la tolleranza dei filosofi intesa quale pacifica convivenza tra pari diversità, bensì quella storicizzata di una diversità superiore che sopporta le diversità inferiori e, se le gira bene, concede loro il privilegio, assolutamente revocabile, di sedere allo stesso tavolo. Per questo ci è molto più facile accogliere nel nostro club, sempre su invito, coloro che più ci piacciono, perché belli o vincenti, coloro insomma che danno un qualche tornaconto. Se ci pensiamo bene è la storia di tutti i giorni, della badante che tolleriamo perché ci libera dall’incombenza di assistere i nostri malati, del venditore ambulante che pur essendo abusivo però è sempre sorridente e simpatico, dello straniero che è nel nostro gruppo dei pari, o in quello dei colleghi di lavoro, che merita un trattamento di favore perché è un amico, scherza con noi è complice solidale delle nostre vicissitudini quotidiane: guai però se questo stato di grazia venisse a mancare, perché il passaggio al "ciascuno a casa propria" sarebbe quasi automatico. La vera maturazione sociale, senza cui l’integrazione resterà inevitabilmente l’esito di un atto concessorio e non un diritto inalienabile, seppur circoscritto da paletti giuridici, chiamali ius soli o ius culturae, si avrà quando ci sembrerà scontato integrare i perdenti, gli antipatici, i brutti, coloro cioè che non necessariamente suscitino la nostra personale approvazione. Chissà quando tutto questo accadrà e se accadrà, soprattutto se non evolveremo nel nostro modo di relazionarci e di stabilire legami interpersonali, il così detto capitale sociale, ancora oggi fermo alla logica della parentela, dell’amico-nemico, dello scambio materiale quale principale, se non un unico, metro di valutazione del valore di ciascun individuo.

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