Il Posto delle Fragole di Mario Coviello: “Ciò che inferno non è”, un romanzo di Alessandro D’Avenia,Mondadori 2014
Una ventata di luminosa aria
estiva, un tripudio di sole, zagara e sale riporta i lettori di “Ciò che
inferno non è” di Alessandro D’Avenia con tutti i cinque sensi nella Palermo
del 1993. L’ultima estate di Don Pino Puglisi, il prete del quartiere
Brancaccio di Palermo ammazzato dalla mafia a 56 anni.
Lo consiglio alle persone che
“non smettono di cercare le parole necessarie a tirare fuori la vita dalla
vita, per trovare il fuoco del coraggio di non barattare la Bellezza con il
Compromesso. E rimanere fedeli ai propri desideri, nel tempo.”Così scrive
D’Avenia nella postfazione di un romanzo che mi ha preso e commosso fino alle
lacrime.
Durante la mia permanenza a
Palermo mi sono fermato a lungo sulla tomba di Don Pino nel duomo e mi ha
colpito il suo sorriso che ti attraversa nella foto posata sul marmo bianco. Mi
sono chiesto chi ha dato a questo prete il coraggio di sfidare la mafia e di
accogliere i suoi carnefici con un sorriso che è rimasto sul suo volto
sfregiato da una pallottola alla tempia.
D’Avenia ha conosciuto Don Pino
che era il suo professore di religione al Liceo Vittorio Emanuele e aveva
promesso ai suoi genitori di scrivere la storia del suo incontro con lui.
Lo fa diventando Federico, uno
studente di liceo, di buona famiglia borghese che scopre la realtà, il mondo
vero, quando va a Brancaccio per dare una mano a Don Pino in parrocchia con i
bambini.
Federico comincia facendo da
arbitro in una partita di pallone e si prende un pugno nello stomaco quando non
“fa le cose giuste” e torna a casa senza la bici che gli rubano. Federico
accompagna Don Pino nelle case del quartiere, nel carcere di Brancaccio,
conosce Lucia che sta allestendo una recita con i piccoli e se ne innamora.
Federico deve partire per Oxford
per studiare l’inglese è già tutto pagato ma non può più partire. Sfida i
genitori e torna nel quartiere mentre la mafia si fa sempre più pericolosa per
il prete e il giovane ed entrambi vengono pestati a sangue.
Entrambi non possono fermarsi.
Federico non può lasciare solo il suo professore e si affeziona ai bambini che
porta al mare a Mondello perché «Se nasci all’inferno hai bisogno di vedere un
frammento di ciò che inferno non è». Deve crescere, “farsi una corazza” per
dare un senso alle parole, «parole che mettono l’àncora alle cose», «che
infilzano la realtà», «parole levigate fino alla trasparenza, essenziali come
diamanti ripuliti di materia», deve crescere per dare un senso alla poesia che
ama tanto e ci riesce soffrendo per amore, d’amore.
“Ciò che inferno non è” è Palermo “Tuttoporto”, città che accoglie e nutre
gli stranieri e divora i suoi figli e “ Spasimo”: ” Questo desiderio infinito
che costringe il cuore a spezzarsi, se necessario, i più lo chiamano vuoto e lo
risolvono con l’amore. Ma a Palermo ha un nome ben preciso: spasimo, per
eccesso di mare da guardare, di viaggi da incominciare.”
Palermo nel romanzo di D’Avenia
è l’intrico dei vicoli controllati da uomini che portano soprannomi come il
Cacciatore, ‘u Turco, Madre Natura, per i quali il solo comandamento da
rispettare è quello dettato da Cosa Nostra. Ma sono anche le strade abitate da
Francesco, Maria, Dario, Serena, Totò e tanti altri che non rinunciano a
sperare in una vita diversa. Il romanzo si nutre della simpatia disperata dei
bambini di Don Pino, di Falcone e soprattutto di Borsellino che Don Pino
Puglisi ricorda con una grande festa nel suo quartiere Brancaccio nel primo
anniversario della morte.
Alessandro D’Avenia a Palermo
davanti alla statua che rappresenta la sua città
In una intervista al quotidiano
Libero D’Avenia ha raccontato: «Un’unica immagine ha generato il romanzo:il
sorriso all’assassino che sta per sparargli. Volevo capire se si trattasse di
facile agiografia postuma, o di realtà. L’assassino, quando diventò
collaboratore di giustizia, confessò che non dormiva la notte per quel sorriso,
ed era uno tra i più efferati criminali della mafia. Aggiungerei anche una
chiacchierata con un ragazzo che aveva inquietudini sul suo futuro. Il ragazzo
parlò per ore senza interrompersi e quando si rese conto dell’orario si scusò
dicendo a don Pino: “Ma perché non mi ha interrotto? È tardi…”, don Pino
rispose: “Perché? Hai già finito?”. Il dono del proprio tempo e la capacità di
ascoltare: amore vero. Non si sostituiva maia te, ma ti metteva in condizione
di prendere in mano la tua libertà e scegliere».
Vi raccomando questo romanzo
perché parla di noi, della possibilità — se
torniamo a guardare la vita con gli occhi dei bambini che tutti siamo stati — di
riconoscere anche in mezzo alla polvere ciò che inferno non è.”