Se un qualunque Stato membro dell'Unione Europea decide di nazionalizzare una propria industria, lo può fare, nessuna norma del Trattato lo vieta. Ciò che non può fare è erogare aiuti economici a singole imprese private, ma non è questo il caso.
Riguardo poi la frase "i francesi vengono a fare spese a casa nostra", non è altro che l'ovvia conseguenza del meccanismo domanda-offerta. Si compra perché qualcuno vende e l'Italia sta vendendo, tanto e non da ora, perché ci mancano i capitali per investire e questo si collega alla seconda frase ipocrita, vale a dire: "ci viene impedito di acquistare all'estero". Non è in ballo alcuna questione di reciprocità, ma il mero dato di fatto che le nostre casse pubbliche e private piangono miseria, le banche i soldi del QE se li tengono in pancia sotto forma di BOT e BTP e l'argenteria è in saldo perenne per ripianare un debito mostruoso. Vogliamo parlare degli sforzi diplomatici degli ultimi governi per convincere ora i russi, ora i cinesi, ora gli arabi, a prendersi le nostre aziende decotte? Quando i soldi ci sono, infatti, le spese le facciamo anche noi, basti pensare alle ramificazioni estere di Telecom, ENI e ora anche Ferrovie dello Stato. Il guaio è che il più delle volte gli investimenti li toppiamo di brutto.
Che il capitalismo italiano, pubblico e privato, sia moribondo è storia saputa e risaputa, frutto di un vizio strutturale della nostra classe dirigente. Investire significa pianificare sul medio e lungo periodo e i nostri manager non ne sono capaci, né interessati, perché quel che a loro conta è mantenere la poltrona oggi e questo non lo otterranno di certo in base ai meriti e ai successi sul campo. Una storia emblematica, in tal senso, è quella del padrone della Mivar, storico marchio lombardo di televisori, disposto a cedere gratis la propria azienda ad un italiano che si fosse offerto di rilevarla e mantenere i posti di lavoro. Ancora è lì che aspetta.