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Evasion, giornale del libero pensiero 27 Giugno 2016

Bird’s eye view, Chicago, Stati Uniti, 2015. I falchi pellegrini sono stati sterminati in Illinois negli anni sessanta, ma a partire degli anni ottanta è cominciato un programma per reintrodurli. Nel 2015 Luke Massey ha osservato una coppia di falchi pellegrini che avevano scelto il balcone di un condominio di Chicago per allevare i loro quattro cuccioli. La foto ha vinto il premio giovani. (Luke Massey)

Chiude lo zoo di Buenos Aires 
Dopo anni di proteste animaliste chiude lo zoo di Buenos Aires, in Argentina. Secondo quanto riportato da Greenme.it, 2.500 animali verranno rimessi in libertà nelle riserve naturali del Paese mentre lo zoo diventerà un parco ecologico interattivo non più aperto al pubblico e con soli 50 animali anziani che non possono essere trasferiti. “Questa situazione di cattività è degradante per gli animali, non è il modo di prendersi cura di loro” ha dichiarato il sindaco di Buenos Aires.

South China Morning Post e Reuters
Lo Yuan tocca i livelli più bassi degli ultimi 5 anni
però la borsa di Shanghai torna in positivo nel dopo Brexit
Notizie per ora meno drammatiche di quanto si temesse in questo lunedì di riapertura delle Borse dopo il terremoto finanziario seguito ai risultati del voto per la Brexit venerdì 24 giugno. Sì, è vero, «lo yuan ha toccato i livelli più bassi degli ultimi 5 anni (- 0,9% sul dollaro) e la sterlina inglese continua la sua corsa alla svalutazione (-2,1%)» — come scrive il South China Morning Post stamattina (Hong Kong è sei ore avanti, come Pechino) — dopo aver perso la scorsa settimana il 10% scendendo ai livelli più bassi dal 1985. Ma le borse asiatiche mandano segnali di ripresa, invertendo la rotta: dopo un’apertura difficile, Shanghai è passata in territorio positivo; l’indice Composite guadagna lo 0,86%, a 2.878,76 punti, mentre quello di Shenzhen allunga dell’1,25%, a quota 1.924,28. Anche se, come scrive Reuters, «i mercati faticano a scrollarsi di dosso la profonda incertezza innescata dalla Brexit», e secondo alcuni analisti «le quotazioni azionarie di certi titoli potrebbero perdere ancora il 10%» le perdite sembrano ridursi oggi, almeno in Oriente. A Tokyo (che ha chiuso in rialzo), l’indice Nikkei segna una rimonta del 2,39%, un rimbalzo parziale dopo la pesante caduta del 7,9% venerdì scorso. Il mercato azionario giapponese ha reagito alla minaccia di interventi governativi per stabilizzare lo yen, che guadagna lo 0,3-0,4% sul dollaro. La valuta Usa si rafforza invece su altre piazze asiatiche. Gli investitori continuano a puntare su beni rifugio, come yen, franco svizzero (che stamane si apprezza sull’euro) e futures sull’oro che (dopo aver compiuto venerdì un balzo del + 4,7) oggi nelle borse asiatiche guadagnano lo 0,6% .

The Guardian
Ma (forse) il peggio per le Borse deve ancora venire
perché chi ha voluto la Brexit ora non sa bene cosa vuole
«Un primo ministro anatra zoppa; un (finora) silenzioso cancelliere dello Scacchiere; un partito di opposizione in subbuglio; una possibile elezione generale in autunno che potrebbe produrre un Parlamento senza maggioranza; e la minaccia di un secondo referendum in Scozia. Non sorprendetevi che i mercati finanziari guardino di nuovo alla Brexit e decidano che l’iniziale risposta di venerdì è stata troppo mite». A prevedere possibili sfracelli alla riapertura, stamattina, dei mercati azionari, è Nils Pratley, caporedattore finanziario del Guardian. Il quale sottolinea che anche se l’invito alla moderazione arrivato nel weekend dalla cancelliera tedesca Angela Merkel è una buona notizia, ce n’è un’altra pessima: «I Brexiters hanno vinto il referendum, ma non sembrano aver idea di cosa fare dopo la vittoria. Vogliono l’accesso al mercato unico Ue o no? Abbiamo sentito infiniti proclami che il regno Unito, armato di un’economia più grande e di maggior potere negoziale, può assicurarsi un miglior accordo rispetto a Svizzera, Norvegia e Canada. Ma nessuno è d’accordo su quale debba essere tale modello. Un certo grado di vaghezza era inevitabile, ma c’è un mondo di differenza tra un’ambiguità costruttiva e il non avere alcun concreto principio negoziale». E anche se il sistema democratico potrebbe dimostrare, pure stavolta, di sapere, alla fine, di risolvere le crisi che genera, Pratley invita a prepararsi al peggio. E a tenere d’occhio soprattutto la sterlina. Come farà, di sicuro, Mark Carney, governatore della Bank of England.

Financial Times (a pagamento)
E attenzione ai futuri crolli nell’Eurozona: per Münchau
il Renzi-referendum non è meno rischioso di quello di Cameron
La scommessa referendaria di Matteo Renzi non è meno rischiosa di quella di Cameron. Parola di Wolfgang Münchau, che sul Financial Times spiega: «Renzi ha promesso che darà le dimissioni nel caso perdesse. Se accadrà, sarà stato un monumentale errore di giudizio delle stesse dimensioni di quello di Cameron». La Brexit, secondo Münchau (non perdetevi anche il suo commento sull’asse necessario fra Renzi e Merkel, a pagina 29 del Corriere di oggi) , avrà riflessi negativi sulla crescita italiana e sulle banche del nostro Paese («dolorosamente sotto capitalizzate»). Ma gli effetti del referendum sulle riforme possono essere ancora peggiori. Sia che Renzi si dimetta, sia che decida di chiedere nuove elezioni, a beneficiarne sarà il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo «che la settimana scorsa ha rinnovato la sua richiesta di un referendum sulla permanenza nell’euro». Ma un’eventuale uscita dell’italia dalla moneta unica «innescherebbe il totale collasso dell’eurozona in un breve lasso di tempo». Ci sono vie d’uscita? Una soltanto: «I leader europei dovrebbero seriamente considerare di fare quel che non sono riusciti a fare dal 2008: risolvere le molteplici crisi dell’Unione anziché tentare di cavarsela alla bell’e meglio. E questo implicherà un piano per l’unione politica dei Paesi dell’eurozona». Mica semplice. Ma, secondo Münchau, l’unico modo per evitare che, dopo la Brexit, l’Italia sia la seconda tessera del domino che farà crollare la moneta unica.

Il Foglio (edizione cartacea)
Adesso c’è chi minaccia di premere il tasto Renxit
per il Foglio è «il partito del Cambia Italicum»
Ne aveva già scritto il 3 giugno, venti giorni prima del referendum sulla Brexit — accreditando al vice ministro dell’Economia Zanetti l’idea di cambiare l’Italicum costituendo «il partito liberaldemocratico che manca in Italia» — e oggi Il Foglio torna a delineare un «partito del Cambia Italicum» che sarebbe pronto «a premere il tasto Renxit». Perché, secondo il quotidiano diretto da Claudio Cerasa, nel dopo Brexit «c’è un nemico invisibile contro cui il segretario del Partito democratico dovrà lottare». Si tratta di «un fantasma che a prima vista può apparire innocuo ma che giorno dopo giorno sta diventando qualcosa di più di un semplice tema tecnico»: la legge elettorale. Dopo le elezioni comunali, la richiesta della minoranza dem a Renzi di modificare l’Italicum («tu togli il premio alla lista, inserisci il premio di coalizione e faremo campagna con te per il referendum») è diventata la parola chiave per creare consenso intorno ad un obiettivo diverso («che fino a qualche mese fa sarebbe stato tabù»): la Renxit. «Il premier è in una fase difficile — scrive Il Foglio — il Pd non se la passa bene, le comunali hanno segnato un avanzamento delle forze anti sistema... la vittoria al referendum non è più scontata». Dunque c’è chi si prepara ad archiviare «in maniera indolore il renzismo in caso di vittoria del no a ottobre». Per farlo, «cosa c’è di meglio che sparigliare tutto mettendo in campo la modifica di una legge elettorale che nella maggioranza di governo tutti, tranne Renzi, dicono di voler cambiare?». Chi guida il partito della Renxit? Non solo la minoranza Pd, perché le modifiche all’Italicum le chiedono anche «l’alleato del Pd (Ncd), il partito di Verdini (Ala) e molti dei piccoli partiti che sostengono Renzi». E se il premier non dovesse accogliere le richieste del partito del Cambia Italicum, il rischio è che nel dopo referendum costituzionale «ci siano le condizioni per ripetere con Renzi la stessa operazione fatta proprio da Renzi con Letta: cambiare regime, cambiare governo».

Vox
L’addio inglese spiegato ai bambini con un cartoon 
Disegni e colori per raccontare l’Ue e l’uscita del Regno Unito
(Silvia Morosi) A due giorni dal voto sulla Brexit quasi ogni aspetto è stato sviscerato. Molti saranno i cambiamenti per gli adulti — dall’economia alla politica —, ma ad essere coinvolti dalla decisione saranno anche i bambini, futuri giovani. Per questo Vox ha provato a raccontare il referendum attraverso un cartoon. «Non è così semplice capire come si è arrivati a questo punto e perché il Regno Unito abbia deciso di fare questa scelta», spiegano dal sito web. Attraverso disegni, e semplici didascalie, ognuno collegato a una domanda relativa alla Brexit, è stata ripercorsa la storia degli eventi, «dalla nascita dell’Unione Europea al voto del 23 giugno, rappresentato da una barca che affonda». Si passa quindi da «Brexit come unione di “British” e “Exit” al perchè esiste l’Europa da dopo la Seconda Guerra mondiale, con un accenno al patto di pace tra gli stati e agli accordi riguardanti le industrie del carbone e dell’acciaio. In questo modo anche «chi è meno ferrato in economia o in politica estera dovrebbe riuscire a cogliere gli aspetti fondamentali dell’argomento, che come è stato dimostrato, non è ancora chiaro anche agli stessi britannici che in massa hanno cercato su Google risposte a domande come “Che cos’è l’Unione Europea”?»

El País
Quella di Rajoy è, secondo El País, «una vittoria triste»
Ma ancor più triste sarebbe non formare un governo
Quella di Mariano Rajoy, leader del Partito popolare spagnolo (Pp) è, secondo El País, «una vittoria triste nel mezzo di uno scenario desolante». E anche se, ribadisce l’editoriale non firmato del principale quotidiano spagnolo, «continuiamo a credere che una ritirata di Rajoy faciliterebbe il processo, ammettiamo però che il presidente vedrà questo risultato come una rivendicazione personale». A maggior ragione, però, l’obiettivo dal quale Raioy non può, di nuovo, tirarsi indietro, è quello che l’editoriale sottolinea fin dal titolo: «Formar gobierno»: «In nessun modo si può ripetere la sterilità del periodo precedente, né ricorrere all’irresponsabile espediente di ricorrere a una terza elezione». Per questo motivo, il Partito socialista (Psoe) che, pur avendo ottenuto un pessimo risultato, ha evitato il sorpasso a sinistra da parte di Unidos Podemos e continua ad essere «il partito che guida la sinistra europeista, riformista e costituzionalista», dovrebbe adesso «ascoltare il mandato degli elettori di rimanere all’opposizione e consentire con la sua astensione che a governare sia chi ha i voti per farlo». Insomma, per sintetizzarlo con le parole di Antoni Gutiérrez-Rubí, nel suo blog ospitato sempre sul sito del País, «il Pp vince, il Psoe decide».

Hurriyet Daily News
Ankara ha diversi motivi per rallegrarsi del «Leave»
Ma quasi nessuno è un buon motivo
Lo spettro di un ingresso della Turchia nell’Unione europea è stato uno di quelli agitati dai sostenitori del «Leave». Tanto che il premier (ormai quasi ex) David Cameron non aveva trovato di meglio che difendersi dicendo che l’ingresso dei turchi non sarebbe arrivato prima dell’anno 3000. Nuray Mert, sul sito in inglese del quotidiano turco Hurriyet, si dice quindi poco sorpresa della soddisfazione non troppo velata di Ankara per la sconfitta di Cameron. Ma dietro quella soddisfazione ci sono, a suo avviso, anche altri motivi. Preoccupanti. Perché anche se l’Akp, il partito del presidente turco Erdogan, aveva ai suoi inizi fatto leva sull’ammissione all’Ue per attirare liberali e democratici, l’ultimo ad aver davvero puntato sull’ammissione è stato, per la commentatrice di Hurriyet, l’ex premier Davutoglu, «defenestrato» dal governo e dalla guida del partito qualche settimana fa. Per Erdogan e l’Akp di oggi «norme e valori come i diritti umani e le libertà sono percepiti come ostacoli sulla via del Nuovo Progetto Turco e il legame con l’Ue viene ritenuto un indebolimento del proprio potere, anche se una tale posizione potrebbe essere economicamente svantaggiosa per la Turchia». Quanto al fatto che Erdogan e i suoi sembrino ritenere che l’indebolimento dell’Europa apra opportunità d’oro per Ankara, aumentandone il potere contrattuale, Mert ritiene sia un misto di wishful thinking e schadenfreunde (compiacimento per le disgrazie altrui), figlio dell’idea che «ogni cosa che è cattiva per l’Occidente è buona per noi».

The Boston Globe
Troppi civili americani armati? Indovinate quanto spendono
le agenzie federali Usa (e non sono quelle anticrimine)
Dal giornale che ha dato vita all’inchiesta su Chiesa e pedofilia da cui poi è stato tratto il film Spotlight, un nuovo dossier da manuale di giornalismo: siete convinti che i cittadini statunitensi abbiano ormai perso il senso della misura in tema di armi? Credete che la battaglia che oppone la lobby (anche politica) della Nfa, la National Rifle Association, al presidente Obama bloccando qualsiasi tentativo di limitare la diffusione di pistole e fucili tra i civili sia l’aspetto più preoccupante della cultura americana dell’autodifesa ? Allora preparatevi a scorrere questo articolo del Boston Globe per scoprire che una organizzazione federale ha passato gli ultimi 10 anni a mettere insieme un piccolo arsenale. E non si tratta di un’agenzia che combatte le cellule terroristiche jihadiste oppure le violente gang urbane degli Usa. No, si tratta del Servizio ispettivo per la Salute di Piante e Animali. Solo tra 2006 e 2014 l’agenzia, che fa capo al Diparimento di Stato dell’Agricoltura, ha ammassato: pistole, fucili d’assalto, fucili automatici, mitragliette, munizioni, esplosivi liquidi, giubbotti antiproiettile e cannoni a gas, droni... per un valore di 4,8 milioni di dollari. E non è un caso isolato: quasi tutte le istituzioni governative Usa si stanno armando, sottolinea il Boston Globe. Che stila una classifica della spesa in armamenti (oltre 36 milioni di dollari) a livello federale, escluse le agenzie di sicurezza. Perfino la Fda, la Food and drug administration ha speso 815 mila dollari in fucili e pistole, eppure ha solo compiti di sorveglianza giuridica e amministrativa. In vetta alla lista degli istituti superarmati c’è il Dipartimento per i Veterani (11,7 milioni di dollari in armi, mentre risulta carente l’assistenza sanitaria garantita ai soldati), seguito dall’International revenue service (10,7). Perfino l’Agenzia meteorologica (National Oceanic and Atmospheric Administration) ha speso oltre 1 milione di dollari in armi. E che dire di una colonna della cultura Usa, quella Smithsonian Institution che gestisce 19 musei e 9 centri di ricerca? Perchè diavolo ha dovuto stanziare 309 mila dollari da spendere in pistole e fucili d’assalto?

The Atlantic
Zika minaccia il Brasile ed è già pandemia a Porto Rico
Nel 51esimo stato Usa, colpirà il 25% della popolazione
«Al netto di epocali imprevisti, ormai è quasi certo che Zika contagerà il 25% della popolazione di Porto Rico». La dichiarazione dell’immunologo Anthony Fauci è agghiacciante: il 51esimo stato federato degli Usa sarà il più colpito dal virus portato dalle zanzare Aedes Aegypti e Aedes Albopictus (zanzara tigre), ma trasmesso anche per via sessuale. Secondo gli studi epidemiologici, scrive The Atlantic, «la vulnerabilità della popolazione portoricana allo Zika è straordinaria»: ci sono già stati 1.804 casi trasmessi a livello locale sull’isola, più suscettibile all’espansione del virus anche a causa delle condizioni di vita non salubre legate alla crisi economica (il Porto Rico è ufficialmente il primo stato Usa in default) e a causa della densità della popolazione. C’è poi il problema della parziale asintomatologia iniziale del morbo: quattro persone su cinque tra quelle infettate non manifestano alcun sintomo, e i sintomi sono di gran lunga più miti rispetto a quelli di altre malattie portate dalla zanzare come dengue, chikungunya e febbre gialla. «Non sappiamo per quanto tempo il virus rimanga nel corpo, ma le raccomandazioni sanitarie sono che le donne aspettino 8 settimane prima di iniziare una gravidanza e gli uomini (il virus si trasmette anche attraverso il seme) si astengano da rapporti non protetti per almeno 6 mesi». Intanto la Camera dei Rappresentanti Usa ha approvato una legge che stanzia 1,1 miliardi di dollari (poco più della metà degli 1,9 chiesti da Obama) per combattere lo Zika.

Liberation
L’Islanda pensa agli Europei e in pochi eleggono il presidente 
Il professore di storia Johannesson è il nuovo capo di Stato
(Silvia Morosi) L’Islanda che vive la favola degli Europei, dove la sua nazionale giocherà lunedì l’ottavo di finale contro l’Inghilterra, ha scelto sabato il prossimo presidente (funzione essenzialmente onorifica e protocollare) al posto del 73enne Olafur Ragnar Grimsson, in carica da 20 anni. L’eletto — come racconta Liberation — è senza etichetta politica. Gudni Johannesson, proclamatosi vincitore con il 39,08% dei suffragi, davanti all’imprenditrice Halla Tomasdottir, ha «47 anni ed è un docente di storia, che si è presentato alle elezioni senza l’appoggio di un partito». Johannesson prenderà il posto di Ragnar Grimsson, che è riuscito ad essere riconfermato cinque volte e a rimanere in carica vent’anni. «I 245 mila elettori islandesi hanno voluto mandare un messaggio chiaro, dopo che molti nomi eccellenti dell’isola dell’Europa settentrionale sono finiti nello scandalo dei Panama Papers (compreso l’ex premier)». A chi gli ha chiesto, durante la campagna, se fosse di centro-sinistra o di centro-desta, lui ha sempre risposto: «Sono al di sopra dei partiti». Non sarà Johannesson a fare le veci del premier, ma, «in ogni caso, la linea euroscettica dell’Islanda non cambierà con lui alla presidenza della Repubblica». Pochi anni fa Reykjavik ha ritirato la sua domanda di adesione all’Unione Europea e la maggioranza dei cittadini non ha intenzione di fare marcia indietro, soprattutto dopo la Brexit.

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