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Evasion, notizie del libero pensiero 27 maggio 2016


New York Times (a pagamento)
Una serie di notizie brutte, e nessuna catastrofica 
La strada che può davvero portare Trump alla Casa Bianca
«Dunque abbiamo constatato che è possibile che Trump superi Clinton in un sondaggio, anzi in molti sondaggi. Il che non deve scatenare il panico tra chi lo detesta: il cammino verso la Casa Bianca, per lui, è ancora oscuro, la sua maggioranza fragile. Ma potrebbe accadere: ed è bene capire che cosa potrebbe favorirlo». Ross Douthat è uno dei più formidabili commentatori conservatori d’America.

E la sua analisi sul New York Times, nel giorno in cui Trump raggiunge il numero di delegati necessario ad assicurargli la nomination, svela che a favorire l’arrivo del miliardario allo Studio Ovale non sarebbero tanto dei «cigni neri» — eventi sorprendenti e catastrofici — ma uno «stormo di cigni grigi». Insomma: non un collasso dell’economia, né un attentato terroristico massiccio sul suolo americano — che potrebbero far pensare agli elettori se davvero sia Trump l’uomo più affidabile per affrontare crisi simili —, ma «un sentimento diffuso, e difficilmente razionalizzabile, che le cose stiano andando fuori controllo. O, come dice Trump, “sta succedendo qualcosa, e non è una cosa bella”». Tradotto: un sobbalzo dei mercati. L’aumento del prezzo della benzina. (Non è un caso che proprio in queste ore Trump abbia promesso di cancellare le leggi «green» di Obama e l’accordo di Parigi, e tornare decisamente ai combustibili fossili). Minacce terroristiche nelle capitali europee. E scandali — nuovi: non le email, né le vecchie storie sulle presunte molestie da parte di Bill Clinton — sulla candidata democratica e sull’ex presidente. «Nessuno di questi eventi è del tutto implausibile», dice Douthat: «difficile che ce ne siano in numero sufficiente». Non impossibile: non più.

Washington Post e New York Times
L’editoriale del NYT su Hillary («che non sapeva usare un desktop»)
e quello del Washington Post che dice: basta con queste email
Da un lato, il New York Times. Che, in un editoriale non firmato — e dunque che esprime la linea del quotidiano più importante del pianeta — spiega come Hillary Clinton stia, incredibilmente, annegando nello scandalo delle email inviate da un suo server personale, e non da uno pubblico, durante il suo periodo di lavoro al dipartimento di Stato: «non sono state accertate violazioni di sicurezza», spiega il Nyt, «ma la posizione difensiva assunta da Hillary, l’assenza di risposte chiare su questioni decisive» rischiano di dare fiato alle trombe di Donald Trump: pericolosamente. (Il New York Times, in un altro articolo, riporta una nuova spiegazione offerta da un assistente di Clinton che riassume perfettamente la questione: «L’allora segretario di Stato», ha detto l’assistente, «ha chiesto di installare il server personale di email perché non sapeva usare un desktop, e preferiva usare il Blackberry»). Un altro editoriale — questa volta del Washington Post — sposta invece la questione (e sembra rispondere alla frustrazione dei lettori del Times, uno dei quali scrive: «Che cosa c’entri questa storia delle email con la possibilità di avere una buona presidente è al di là della mia possibilità di comprensione»). E dice che il vero problema di trasparenza non è di Hillary, ma degli altri due candidati: e cioè Trump e Sanders. Uno dei quali (il primo) non ha mai pubblicato le sue dichiarazioni dei redditi (e i sospetti di una maxi elusione fiscale sono ormai sempre più diffusi); mentre l’altro ne ha pubblicato uno solo (del 2014).

The Guardian e The Economist
La retorica neopacifista di Obama oggi sarà stonata:
in un’Asia minacciata dal nucleare, il nucleare serve ancora
(Gianluca Mercuri) Barack Obama, com’è ormai noto, non si scuserà per le atomiche americane sul Giappone, ma oggi a Hiroshima virerà su un tema molto Obama-style, l’appello per un mondo che un giorno si liberi dall’incubo nucleare. Un Obama prima maniera, simile nei toni a quello del discorso di Praga del 2009, che molto lo aiutò a ottenere il Nobel per la Pace. Ma un Guardian in vena di lucido realismo sottolinea la contraddizione del presidente americano: «il contesto strategico in Asia», in effetti, non favorisce per niente le velleità neopacifiste di Obama, perché «la deterrenza nucleare americana è qualcosa che gli alleati degli Usa vogliono vedere consolidata, non certo smantellata o ridotta». A preoccupare Usa e Giappone sono la continua esibizione di muscoli della Cina e l’inaffidabilità della Russia (la più grande superpotenza asiatica). Ma che il mondo continui a vivere «all’ombra della bomba» e continuerà a farlo anche dopo Obama, lo si deve soprattutto alla minaccia nordcoreana, come ricorda la solita folgorante copertina dell’Economist. Se la chioma di Kim Jong Un a mo’ di fungo atomico fa sorridere, l’analisi del settimanale è da brividi. Nessuno Stato ha mai speso tanta parte della sua ricchezza in armi nucleari. E se la deterrenza si basa sul presupposto che gli Stati agiscano razionalmente, nessun interlocutore è mai stato imprevedibile quanto Kim, che dinanzi alla prospettiva di un collasso del regime potrebbe davvero incenerire Seul, come tante volte ha minacciato. «L’America ha bisogno di piani per distruggere l’arsenale nordcoreano prima che possa essere usato. Per questo la cooperazione della Cina è vitale. Il pericolo è talmente chiaro che rivali che si scontrano altrove in Asia devono trovare nuovi modi di lavorare insieme». E intanto, Giappone e Corea del Sud vanno protetti. Con il nucleare, of course.

Financial Times
Anche il giornale della City è preoccupato per Israele
«Netanyahu pensa a se stesso, non al suo Paese»
(Gianluca Mercuri) Premessa: in questi giorni tutti i grandi giornali internazionali sono molto preoccupati per quello che sta succedendo nella politica israeliana. Promessa: appena un grande giornale internazionale si dirà molto soddisfatto per quello che sta succedendo nella politica israeliana, non mancherà di esser citato in questa rassegna. Per ora, non resta che registrare, dopo il New York Times (vedi ieri), il Financial Times. Neanche il giornale della City, in effetti, fa salti di gioia per la nomina a ministro della Difesa dell’estremista di destra Avigdor Lieberman, un uomo «che vive in un insediamento illegale nella Cisgiordania occupata» e che lo stesso premier Benjamin Netanyahu definì «pericoloso». E anche il giornale della City ricorda il contesto, la defenestrazione di «un uomo rispettato» come Moshe Yaalon, la «paura per il futuro di Israele» da lui espressa nel dimettersi dall’incarico passato a Lieberman e le inquietanti parole di un ferreo patriota come l’ex premier Ehud Barak, secondo cui «Israele è stata infettata dai germi del fascismo». Ma al Ft preme sottolineare che l’artefice di questa involuzione è il primo ministro, che con le ultime mosse «elimina qualsiasi possibilità» di uno Stato palestinese (se mai ve ne fossero ancora) e sceglie di fatto la prospettiva di «uno Stato binazionale, con i palestinesi cittadini di seconda classe». A Netanyahu, è la conclusione, preme più la sopravvivenza politica (solo il padre della patria David Ben Gurion è stato in carica più di lui, e vuole superarlo) degli interessi a lungo termine di Israele.

Libération
Quaranta intellettuali francesi scendono in campo 
contro l’epurazione della giornalista sgradita a Hollande
(Candida Morvillo) In Francia, s’ingrossa di giorno in giorno l’affaire della giornalista che rischia il posto perché sgradito, pare, al presidente della Repubblica François Hollande. Scrive Libération che l’Obs è nella tempesta e che la numero due del settimanale Aude Lancelin, minacciata di licenziamento dal direttore Matthew Croissandeau, vede arrivare in suo soccorso una quarantina di intellettuali, tra cui Claude Lanzmann, Annie Ernaux, Laurent Binet e Emmanuel Todd. Nella lettera aperta, la paventata cacciata di Lancelin, rea di essere troppo a sinistra, è definita una «operazione di polizia del pensiero… in un giornale di sinistra in cui non tutte le sinistre hanno diritto di cittadinanza». L’accusa punta decisa contro Hollande, che in vista delle prossime presidenziali starebbe chiedendo un «serrate le file» alla «sua» stampa. Sembra che le pagine Débats de l’Obs, ora tolte alle cure di Aude Lancelin, pendessero verso una gauche troppo estrema per un giornale dalla linea dichiaratamente prossima al Partito Socialista. Provocavano dispiaceri all’Eliseo e, scrivono Jérôme Lefilliâtre e Tristan Berteloot, avrebbero messo in imbarazzo Croissandeau e gli azionisti. Lancelin finora è stato zitta, ma Libération sostiene che abbia già ricevuto la lettera di licenziamento, mentre il direttore giura di non aver subito pressioni esterne e di aver deciso per «motivi manageriali». Non è la prima volta che, licenziato un giornalista, si chiama in causa un editto dell’Eliseo. All’indomani dell’elezione di Hollande, la radio Rtl aveva cacciato Pierre Salviac, responsabile di un incauto tweet in cui invitava le colleghe ad andare a letto con un potente, sulla scia della firma di Paris Match Valérie Trierweiler, neo-compagna del presidente. Sono almeno tre i precedenti ascritti, invece, al predecessore di Hollande, Nicolas Sarkozy.

The Atlantic
L’app russa che riconosce i volti e li incrocia con quelli del social Vk
Ecco perché la tecnologia di riconoscimento facciale fa paura
(Martina Pennisi) Stai bevendo un caffè al bar, come tutte le mattine. Scorri i titoli del giornali, sorseggi la bevanda e dopo una decina di minuti ti alzi per proseguire la routine quotidiana. All’ora di pranzo ti arriva un messaggio di posta elettronica: «Ciao, ti ho visto questa mattina al bar, ti va di conoscermi?». Chi è? Ma, soprattutto, come ha fatto a rintracciarti? Non è uno scenario fantascientifico quello in cui a chiunque basterà puntare la fotocamera del cellulare nella tua direzione per scoprire come ti chiami e come può rintracciarti online. E, appunto, mandarti una mail. La tecnologia del riconoscimento facciale è nella lista delle priorità di molti, a partire da Facebook. In Russia è già realtà: l’app FindFace, lanciata due mesi fa, permette di identificare le persone dai loro volti incrociando gli scatti con il database di Vk, il più diffuso social network del Paese. L’algoritmo sviluppato dalla NTech Lab setaccia Vk e restituisce i profili simili. Ed è questo l’aspetto che causa le maggiori preoccupazioni in materia di privacy: l’app va a pescare in un altro recinto e dimostra come nel mare magnum della Rete sia difficile proteggere i nostri volti. Contesti ben recintati come Facebook possono adottare una serie di escamotage, come l’applicazione di filtri, per evitare agli altrui bot di entrare in possesso dei (nostri) dati, mentre magari al loro interno sfruttano tecnologie analoghe per aiutarci a taggare le foto. Diverso è il discorso per il resto di Internet, e il dibattito sulla privacy che torna a farsi martellante.

The Atlantic
Quanti articoli pubblicano i giornali ogni giorno?
Un numero sterminato (e il Washington Post batte tutti)
(Federica Seneghini) Quanti sono i pezzi pubblicati dai quotidiani online ogni giorno? Robinson Meyer, giornalista dell’Atlantic, ha fatto i conti. E ha scoperto che in cima alla classifica dei siti più prolifici c’è il Washington Post. Che, ogni giorno, pubblica una media di 1.200 pezzi – tra articoli, grafici e video. In pratica uno ogni due minuti. Circa 700 sono lanci d’agenzia, 500 gli «elementi» prodotti dai giornalisti del quotidiano di Jeff Bezos. Al secondo posto, con 230 storie pubblicate ogni giorno, c’è il New York Times. Un numero cresciuto del 35% negli ultimi 10 anni (ma il conteggio non include le agenzie). Medaglia di bronzo per il Wall Street Journal. Che ogni giorno, mette online circa 240 notizie. Le stesse che poi finiscono sulla carta. Sempre meno, fa notare Meyer: cinque anni fa erano 325. E Buzzfeed? Come se la cava il quotidiano nativo digitale? In aprile le storie approdate sul sito sono state 6.365. Quattro anni fa erano appena 914.

Tmz.com
Povero Johnny Depp, piantato dalla moglie 
proprio mentre gli muore la mamma…
(Candida Morvillo) La colpa è sempre della suocera, anche a Beverly Hills. Amber Heard avrebbe chiesto il divorzio da Johnny Depp sfinita da una faida di famiglia che si è trascinata per tutti i pur pochi 15 mesi di matrimonio che l’hanno vista legata alla star dei Pirati dei Caraibi. Lo sostiene il sito Tmz, spesso (anzi, spessissimo) ben informato sulle faccende di Hollywood. Ma al di là dei gossip che riferiscono di liti continue fra la sposina, la suocera e le due cognate, ovvero le sorelle di Depp, e i due figli adolescenti che lui ha avuto da Vanessa Paradis, ciò che colpisce è un altro dettaglio: la mamma di Depp, Betty Sue Palmer, è morta il 20 maggio, dopo una lunga malattia, e Amber Heard ha chiesto il divorzio tre giorni prima, incurante, del fatto che lui avesse la mamma agonizzante. Sostiene Tmz che Betty Sue Palmer avesse sempre detestato la nuora, certa che puntasse solo ai soldi e alla popolarità. Alla luce dell’infelice timing, in effetti, più che chiedersi se Tmz ha ragione, viene da chiedersi se non aveva tutti i torti la compianta signora Betty Sue.

Bbc
L’ultimo messaggio di Geraldine, morta dopo essersi persa nei boschi
E una storia da film che commuove i media del mondo
Il suo volto appare nella home page della Bbc, in quella del New York Times, sulla prima pagina dell’edizione digitale dell’austero Times di Londra (e in alto, in questa newsletter). Zaino in spalla, pile tecnico rosso, una bandana azzurra a coprire i capelli biondi, un sorriso allegro. Geraldine Largay, 66 anni, amava la montagna, E nel 2013 si era avventurata su uno dei sentieri più belli degli Stati Uniti, quello degli Appalachi. Si era persa, finendo fuori dal sentiero in una zona durissima, usata per gli addestramenti militari. Aveva piantato la tenda, provato a inviare messaggi al marito: ma non c’era campo. Il suo corpo era stato trovato due anni dopo. Il dettaglio emerso oggi — quello che ha commosso i media mondiali, finiti di fronte a una nuova versione, meno ribelle e più dolce, di «Into the wild» — è che per tutti e 26 i giorni in cui rimase in vita dopo essersi persa, Geraldine non smise mai di tenere un diario. «Quando troverete il mio corpo, per favore, chiamate mio marito George, e mia figlia Kerry. Sarebbe una gentilezza nei loro confronti far loro sapere che sono morta, e dove possono trovarmi — non importa tra quanti anni. Per cortesia, abbiate cuore di inviare a uno di loro quel che troverete in questa borsa».

Guardian
Il super-batterio resistente agli antibiotici è arrivato negli Usa
e il rischio dell’«apocalisse» di cui parlava l’Economist si avvicina
La notizia era in qualche modo attesa (ne parliamo anche sul sito di Corriere, con una video scheda che spiega quale sia il pericolo in arrivo: «Un morto ogni 3 secondi nel 2050»): il che, però, non la rende meno pericolosa. Per la prima volta, un paziente americano — una 49enne della Pennsylvania — è stato infettato da un batterio resistente agli antibiotici più potenti. Il punto, spiega il Guardian, è che «se questa capacità di resistenza agli antibiotici da parte dei batteri si dovesse diffondere, il Paese si troverebbe di fronte a nemici invincibili con le armi attualmente a disposizione». Una settimana fa, l’Economist aveva dedicato, al tema, una copertina con un titolo eloquente: «Quando i farmaci smettono di funzionare». Il pericolo, ora, è ancora più evidente, e vicino.

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