Renzi e la turbopolitica
Potremmo
definire Matteo Renzi come parto del turbocapitalismo, di quel
contesto socioeconomico dominante, dove la velocità nel prendere le
scelte è più importante del contenuto delle stesse.
Siamo
abituati a vederne gli effetti nelle aziende, dove la reazione
immediata dell'amministratore delegato, qualunque essa sia, limita i
tonfi in borsa e le svalutazioni del rating. Meno frequente è che
ciò accada in politica, soprattutto quando il venir meno delle
ideologie avrebbe dovuto aprire la dialettica a riflessioni accurate
sui valori e gli interessi coinvolti in una decisione. Stiamo
assistendo al fenomeno contrario e anche in Italia si può parlare di
turbopolitica. Renzi non è nuovo a tale contesto, basti scorrerne la
carriera di amministratore locale, decollata anche grazie a scelte
che i suoi predecessori avevano ritardato per la complessità degli
interessi in gioco. Ma come è stato possibile sbloccare Firenze e
come si potrà sbloccare l'Italia?
Nella
turbopolitica renziana ciò si concreta nella logica del male minore.
Soppesi i gruppi di interesse in campo e penalizzi quelli con minore
capacità di opposizione, reazione e ritorsione. Il decisionismo,
infatti, va quasi sempre a scapito dei meno forti. Non si sa allora
cosa sia meglio, se una politica riflessiva che può sfociare nello
stallo o una turbopolitica a rischio di forte iniquità sociale. Una
cosa è certa, nel portare avanti la sua guerra, Renzi avrà
calcolato un certo numero di “vittime” tollerabili, prezzo
fisiologico del cambiamento. Ciò che forse non ha calcolato è che
anche lo stallo, a volte, è l'esito di una turbopolitica, quella
gattopardesca. Questo fraintendimento, sarebbe un errore
imperdonabile soprattutto per il paese, in quanto porterebbe il
governo ad imporre scelte che penalizzino oggi i più deboli, senza
toccare le resistenze che potrebbero impedire, un domani, una
crescita per tutti.