Quando
il
viceministro Catricalà afferma che, nel mondo della competizione
globale, l'idea di avere tutte aziende italiane è puramente onirica,
dice
una dura verità. Anzi, indora la pillola, perché alle condizioni
attuali l'Italia sembra destinata a perdere ben più di qualcuna delle
sue realtà produttive. Lo Stato italiano non ha più né
l'autorevolezza per imporre la propria ragione imperativa sulle
logiche della competitività, né le risorse per affermarsi come
attore di mercato.
A prescindere dalle peculiarità del caso Telecom,
azienda che i diversi governi hanno usato per scopi anche
oscuri e lontanissimi dalle finalità statutarie, fanno (amaramente)
sorridere gli esponenti del PD e, in particolare, del PDL, che
chiedono al presidente Letta di battere un colpo. Il solo colpo che
questa classe politica può attendersi, coerentemente al suo agire
in aula e fuori, è quello del battitore d'asta che stocca il nostro
patrimonio pubblico. Da alcuni anni ormai, una delle parole più usate
dai nostri rappresentanti eletti è
dismissione. Far cassa vendendo le proprietà statali, così
da evitare l'introduzione di nuove imposte, poterne abrogarne altre e
rimandare
una razionalizzazione seria della spesa pubblica e del fisco. Alla
parola dismettere, il politico di turno usa collegare
l'immagine di caserme abbandonate o immobili fatiscenti, che invece
rimarranno sul groppone dei contribuenti, così come le
elefantiache società a partecipazione pubblica che erogano pessimi
servizi, impiegano eserciti di raccomandati e ogni anno iscrivono a
bilancio nuove perdite. Dai tempi di Tototruffa son passati più di
cinquanta anni e di babbei col portafoglio colmo, ne sono
rimasti davvero pochi. Le promesse elettorali costano, le riforme
mancate si pagano e dunque è piuttosto ipocrita chiedere allo Stato
un ruolo che ha ormai svenduto da tanto, tanto tempo.