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Contro-Video: La repressione della lotta Mapuche



Segue articolo: "Nell'Aleppo insorta la rivoluzione in ciabatte e t-shirt"
Con gli insorti nel nord  della Siria: fucili contro tank
 

Sulla strada a scorrimento veloce che circonda il centro di Aleppo, il traffico sembra quello di tutti i giorni: un ingorgo di macchine, bus, camion e un’infinita varietà di veicoli che trasportano qualsiasi cosa, umani, beni o bestie. Come al solito, ci sono anche i sette soldati dell’armata di Bashar al-Assad che montano la guardia, laggiù alla fine del ponte. A cento metri da lì – forse anche meno –, un camion si mette di traverso, sbarrando la strada. Suona il clacson imprecando contro il traffico. Poi, un po’ più in basso, c’è un altro camion – stavolta blu con delle righe dorate sul parabrezza – che crea un nuovo ingorgo. «Ma non è un ingorgo, è la rivoluzione!» esclama all’improvviso un autista di minibus.
Domenica l’Esercito di liberazione siriano ha lanciato una nuova operazione per penetrare ancor più nella città di Aleppo, la seconda in Siria. Dire che la battaglia è cruciale per il regime del presidente Bashar al-Assad è poco.
Nelle campagne attorno, già conquistate dagli insorti, ogni villaggio si è mobilitato per inviare ad Aleppo soldati delle proprie truppe. Sabato a mezzanotte, un capo militare e uno religioso dispensano i loro consigli all’ultimo convoglio in partenza: «Non fate del male alle donne, non tagliate gli alberi, non attaccate né civili né supermercati. Non provate a recuperare subito le armi: prima combattete». Intorno, i bambini fanno un picchetto d’onore, affascinati, tanto paralizzati dall’ammirazione da non osare avvicinarsi agli uomini che pochi istanti prima erano i loro padri, fratelli o cugini.
Aleppo è a meno di 20 chilometri ma per entrare nella città ci vuole più di un’ora. Il convoglio dei combattenti è fragile, munito solo di qualche arma anticarro, e nessuna contro gli elicotteri. La rivoluzione – come la chiamano qui i suoi partigiani – non è come quella dei libri di storia, o almeno finora. Niente di spettacolare o eclatante: nessuna presa della Bastiglia, nessuna insurrezione popolare da invadere la città. Avanza a piccoli passi, con le ciabatte e la t-shirt, con la divisa bucata, ottenendo dei successi modesti e delle sconfitte cocenti, sostenute da una convinzione incrollabile nella vittoria.
Ad Aleppo le truppe sono dirette verso una scuola della città, e tra gli affreschi di Topolino e Spongebob si mangia, si dorme, si muore. Davanti alla porta, ogni tanto sfilano gruppi di uomini che esclamano «Allah akhbar» e poi se ne vanno. «Lo facciamo per salutare la nostra armata, ma anche perché non avevamo mai osato gridarlo in pubblico prima d’ora», dice uno. E un altro: «Ãˆ la prima volta che esco per la strada senza che mi sparino addosso». Il quartiere musulmano sunnita, come la maggioranza del paese, si è stretto intorno agli insorti.
A dire la verità, gli eventi di questi giorni difficilmente fuoriescono dall’universo totalizzante delle rivalità religiose e sociali che lacerano la Siria. Un esempio, anche piccolo? Con il recente arrivo dei rivoluzionari nella scuola, il commissariato di polizia della zona si è spaccato a metà: da un lato, i cinque poliziotti sunniti si sono uniti a loro, mentre gli altri quaranta si sono barricati nei locali giurando di venire alle mani. Questi appartengono alla minoranza alawita, accusata di spartirsi i commissariati migliori del paese.

Domenica, alla fine della giornata, gli accampamenti degli insorti diventano un punto di adunata. Una donna con suo figlio va a chiedere giustizia al comandante: suo marito l’ha cacciata di casa quando è lei a guadagnare per mantenere la famiglia. Quando la riaccompagnano, lei si stupisce: «Dovete aiutarmi. Siete voi i capi adesso». E il comandante, all’improvviso tutto dolce: «Bisognerà aspettare ancora un po’». La fabbrica tessile che possiede si trova a meno di 500 metri in linea d’aria.
Un uomo attraversa il cortile della scuola, con pantaloni rossi alla moda, occhiali da sole che gli sporgono dalla tasca, ma il volto ammaccato e sanguinante. Due soldati lo sostengono, o meglio lo trascinano. È un prigioniero, accusato dalla popolazione di essere uno degli «shabiha», gli uomini che il regime paga 15 mila lire siriane (un po’ meno di 200 euro) per portare a termine gli incarichi più sporchi. «E in più, hanno il diritto di saccheggiare», dice qualcuno. Una quindicina di loro sono già ricoverati nella sala professori, e altri vengono trasferiti qui di continuo.
E poi, di colpo, la gente inizia a correre in tutte le direzioni. I carri avanzano verso la scuola. Un elicottero inizia a sorvolare la zona. Resta in aria per ore. Sparano. Bruciano dei pneumatici, in mancanza di meglio. Laggiù, sulla strada a scorrimento veloce, il check-point del mattino e i due camion sono stati polverizzati. Nel fuggifuggi si radunano i feriti, tra cui una bambina. Per la notte, ognuno si rifugia in una postazione dei militari. Una squadra si sta già preparando ad andare a ripristinare il check-point. Se sarà necessario, ricominceranno il giorno dopo, e il giorno dopo… (La Stampa 24 Luglio 2012)

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