Segue Articolo: "Le Cosche all'Assalto delle Terre Confiscate"
“Le cosche all’assalto delle terre confiscate”
Nel cimitero di Partanna, piccolo Comune a 50 chilometri da Corleone, c’è una tomba senza nome.
È quella di Rita Atria, «Rituzza». Nata in una famiglia mafiosa, cresciuta fra omicidi e faide, a 17
anni aveva scelto di ribellarsi e diventare testimone di giustizia. Il 26 luglio 1992 si è tolta la vita,
una settimana dopo la strage di via D’Amelio. Per lei Paolo Borsellino era come un padre. Si era
sentita sola, e sola è rimasta. Da allora la sua tomba è sistematicamente vandalizzata. Ancora oggi
non c’è il suo nome sulla lapide. Questo per raccontare cosa succede a Partanna, Sicilia, Italia. Dove
ieri notte, qualcuno ha dato fuoco a dieci ettari di uliveto, assegnati in concessione transitoria
all’associazione Libera Terra di don Luigi Ciotti.
Può sembrare un piccolo fatto di cronaca locale, ma non lo è. Perché sempre ieri un altro incendio
ha devastato un terreno in località Estaglio di Partanna. E l’altro ieri un terzo incendio ha mandato
in fumo un uliveto a Castelvetrano, sulla strada verso Mazara del Vallo. E dieci giorni fa, sempre a
Castelvetrano, erano bruciati venti ettari confiscati alla famiglia Sansone, proprietaria della cascina
di via Bernini a Palermo, dove era stato latitante Totò Riina. Insomma, ogni volta che Libera firma
un contratto, ogni volta che incomincia un progetto per cambiare la storia e piantare semi di legalità,
arriva un segnale contrario. Fuoco. Distruzione. Avvertimenti. E poi, silenzio.
«Non possiamo più pensare che siano coincidenze - dice don Luigi Ciotti, presidente nazionale di
Libera - tutti questi incendi sono un attacco al lavoro quotidiano di chi si impegna contro il potere
criminale». Sei roghi a giugno, dieci nell’ultimo anno. Danni ingenti. Il 6 giugno hanno distrutto
2000 piante di aranci e 100 ulivi vicino a Catania, per un valore di oltre centomila euro. Succede in
Sicilia, ma anche in Puglia, Calabria e Lazio. Per dire, il villaggio Borgo Sabotino di Latina,
confiscato per abuso edilizio e dato in gestione all’associazione Libera contro le Mafie, è stato
devastato. Questa è l’aria che tira.
Don Ciotti ha riflettuto a lungo, prima di scegliere di denunciare pubblicamente quanto sta
avvenendo: «In questo momento il Paese è travolto da problemi di estrema gravità e sofferenze. E
però, devo essere sincero, ci siamo stancati di aspettare. Un anno fa a Nardò, dove c’era un
bravissimo prefetto, sono scomparsi 35 ettari di grano. Siamo rimasti in silenzio per favorire le
indagini, ma il grano non si è mai trovato. Alla fine hanno vinto loro. Non è giusto. Lotta alle mafie
vuol dire restituire alla collettività».
I mafiosi distruggono quello che non possono più avere. Mandano segnali ai residenti. Dividono.
«Ormai sta succedendo ogni giorno - spiega don Ciotti - sistematicamente. Forse dobbiamo farci
qualche domanda in più. Qualcosa nel meccanismo di tutela deve essere rivisto. Così come, a
monte, va potenziato lo strumento della confisca».
Nonostante tutto, Libera va avanti. E questa estate porterà seimila giovani a lavorare nelle terre
liberate. Con le sue cooperative produce 600 mila bottiglie di vino all’anno, 800 mila confezioni di
pasta. E legumi, taralli, passata di pomodoro, olio, mozzarella, marmellata. Fa rinascere dalle terre
dei mafiosi nuova occupazione e prodotti per la collettività. Ed ecco perché, quello che sta
succedendo, ha colpito molto il ministro del Lavoro, Elsa Fornero: «Voglio esprimere tutta la mia
preoccupazione e la mia solidarietà a Don Luigi Ciotti. Come alle persone valorose che stanno
lavorando in quelle terre per combattere l’illegalità».
Non bisogna lasciarli soli. Rita Atria, «Rituzza» da Partanna, con la tomba senza nome proprio dove
adesso impazzano i roghi, nel suo diario di ragazzina aveva scritto: «Tutti hanno paura. Ma io
l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono
contro i mulini a vento saranno uccisi... Forse un mondo onesto non esisterà mai. Ma chi ci
impedisce di sognare? Forse, se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo». (di Niccolò Zancan
in “La Stampa” del 13 giugno 201)