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Abramo e il sacrificio della casta

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Segue articolo "Tunisia, il dopo Ben Ali".

Tunisia, il dopo Ben Ali riparte dai suoi fedelissimi 

Luoghi, oggi a Tunisi. Dove la democrazia avanza ansando, bambina quasi, ma già esausta. E aspetta nuovo soffio, forse specchiandosi intorno, esportando virtuosi bacilli al Maghreb dei dannati della terra. I luoghi del potere, innanzi e soprattutto. Per capire se davvero tutto sta cambiando bisogna guardarle, le rivoluzioni, dalla parte di chi ha perso, di chi ha vissuto in ben altro modo le strade sconvolte, le schioppettate, lo stato di assedio, la fine del confortevole, del gradevole, dello chic. Assomiglia a Ben Ali la sede del suo partito, l’Rcd, a un uomo che non aveva culto che per il superlativo, che coronava si può dire architettonicamente la sua esperienza di lussuria totalitaria e predatizia. Due milioni di aderenti, novemila cellule a braccare i tunisini giù, fin nei più sperduti villaggi, e nelle aziende, che controllava tutto. Ci bollivano i calderoni di tutta la cucina totalitaria. Migliaia di portaborse notabili e raccomandati poltroneggiavano o alimentavano la piovra della malversazione. Ci sono state dittature terribili che sono state comunque avventure formidabili. Questa no, era sboccata, finta e insipientissima. L’hanno ammaccata, un poco, la cattedrale del Rassemblement constitutionnel démocratique, appena la vetrata di ingresso, dove i balilla dell’intifada hanno avuto la forza e il tempo per gettare unghiate di sasso. Il corpaccione del gigante è intatto, fa da specchio alla banca centrale, dove è passata Leila, la obesa Pompadour per portar via i lingotti, a tonnellate. Qui intorno tutto era di Ben Ali, anche l’aria e la luce. Un soldato placidamente sdraiato su una sedia di plastica aiuta il suo carro armato a sorvegliare questo monumento sciatto e sornione. Chiediamo di entrare, di parlare con qualche funzionario, chissà un ufficio stampa. Un usciere affannatissimo, sudato, sbarra la strada direttamente al cancello. Pare voglia mettere catena e lucchetto, nemmeno fosse un assalto. Strepita, sempre con un sorriso largo così, che gli spiace, che è desolatissimo, che «siete benvenuti in Tunisia che Dio vi renda merito di questa bella iniziativa, ma il palazzo è ora di proprietà dello Stato, e nessuno del partito, nessuno si è presentato al lavoro». «Ma quelli che vanno e vengono in auto a piedi in motorino?» «Ah quelli sono dipendenti che fanno le pulizie, insomma lei mi ha capito». Sì, abbiamo capito, tra poche ore i ministri scelti in questa grande noce guasta, gli stessi dell’era tirannica continueranno a occupare i ministeri chiave del governo di unione nazionale, dal primo ministro agli Interni, agli Esteri alla Difesa alle Finanze. Sul marciapiede di fronte un ragazzino infila metodico sui parabrezza delle auto ferme al semaforo un manifesto scritto in rosso, due parole: «Rcd out». Altro luogo a cinquecento metri: la strada. Gravida di effluvi nauseabondi, ingombra di immondizia che nessuno provvede a sgombrare, ma turgida, pulsante, arrabbiata. Scorre una manifestazione, la prima di questa democrazia stenterella: ma il fiato, la voglia ci sono, non sfigurerebbe nei nostri Sessantotto ben rodati. «Fuori il partito di Ben Ali dal governo, chiudetelo, abolitelo, sopprimetelo». Piovono ancora, nonostante tutto, i lacrimogeni, un elicottero militare addirittura la sorvola a bassa quota come se volesse assorbire quegli impazienti con il risucchio delle pale. Almeno un migliaio di dimostranti sono ieri tornati in piazza. Un altro luogo, ancora del potere. Sulla collina che domina la città, la sede del primo ministro Mohammed Ghannouci, eletto da Ben Ali, che deve annunciare i ministeri del nuovo governo per la transizione alle elezioni libere. Qui davvero il verde è più verde, le strade luccicano come se ci avessero passato l’aspirapolvere. Atmosfera, come dire?, badogliana, già un po’ guasta. Come questa unità nazionale così raggrinzita e tetramente monocolore, di ex, fidi e trabanti. Agli oppositori, ma quelli legali, accettabili fino a ieri perfino da Ben Ali sono rimaste tre poltroncine come Sanità, Pianificazione ed Educazione; e poi c’è un po’ di società civile, per arieggiare il salotto. Un blogger Slim Amamou fino a pochi giorni fa internauta dissidente molto attivo e ora segretario di Stato (sottosegretario) alla Gioventù e allo Sport. «Una truffa, una buffonata» come gridano gli altri, i comunisti, gli esiliati, tutti esclusi, a contare i morti, 78, e il mese di battaglie. Nei corridoi, i camaleonti dell’ora, come Moustafa ben Afar, sentenziano «il passo storico» compiuto oggi, ringraziano con leggerezza blasée, loro che non si sono mai mossi da Palazzo, «la gioventù generosa che si è battuta per la democrazia», che lo emoziona tanto, lui «che quando aveva i pantaloni corti la sognava già, la democrazia». Peccato che in mezzo ci siano stati venti anni, e più, di assolutismo. Nel palazzo, marmo dappertutto e lapislazzuli e tappeti interminabili, mentre il premier parla, in salottini in penombra uomini obesi, pascià in doppiopetto, dosano a bassa voce le nuove alchimie della democrazia paziente nella quale Ghannouci promette che saranno autorizzati tutti i partiti politici e che la libertà di stampa sarà ovunque. E infine il Palazzo, quello vero, a Cartagine, tra le pietre che hanno sopportato il calzare di Annibale e viali-autostrada: l’unico luogo dove abbiamo visto davvero i gelsomini che una ossessiva orticoltura rivoluzionaria ha appiccicato a questa vicenda. Tutto nei saloni è in ordine, i soldati della Guardia presidenziale che voci false raccontavano ammutinati e furenti, presidiano con bello stile le garitte. Aspettano il nuovo padrone. (La Stampa 18 gennaio 2011)

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