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TERREMOTO EMILIA E SITI DI STOCCAGGIO







Detenuti in condizioni disumane nelle prigioni costruite dalle Nazioni Unite 

GabÚ (guinea bissau). Tredici persone in quindici metri quadrati. Poco più di un metro quadrato a testa. È questo lo spazio che hanno a disposizione Ibrahim e i suoi compagni di cella. Mangiano, dormono, fanno i loro bisogni per terra. Uno di fianco all’altro. La puzza è asfissiante, il caldo di quelli che mozzano il respiro. La stagione delle piogge sta per arrivare, e fuori, per le strade di Gabú, polverosa cittadina dell’Est della Guinea Bissau, il sole inizia ad essere rovente, rendendo incandescenti le buie stanze della cella di detenzione. Una cella nella quale i reclusi potrebbero stare al massimo 72 ore ma nella quale finiscono per passare settimane, mesi, in attesa di un giudizio che tarda ad arrivare. Settimane senza mangiare, lottando per un sorso d’acqua. Perché nella maggior parte delle prigioni della Guinea Bissau se non hai soldi e non c’è nessuno che ti porta il cibo e le bevande da fuori, non mangi e non bevi. «Ãˆ un inferno qui, siamo trattati come animali – racconta in francese per non essere capito dalle guardie Ibrahim, 25 enne proveniente dalla Guinea Conakry –. Non c’è acqua corrente, non c’è luce. Io non mangio da giorni perché non ho nessuno che mi possa portare del cibo. È una condizione umana questa?». Di umano non c’è nulla tra questi muri scrostati, sporchi, carichi di umidità. I detenuti sono privati di qualsiasi diritto, anche di quello alla difesa. Formalmente avrebbero diritto ad avere un avvocato, ma in pratica sono abbandonati a se stessi, in balia di un sistema giudiziario lento e corrotto. Tutto questo non fa notizia in uno dei paesi più piccoli e poveri dell’Africa, tormentato fin dal giorno dell’indipendenza dal Portogallo, datata 1974, da colpi di stato che si susseguono uno dopo l’altro, senza sosta. L’ultimo il 12 aprile scorso, per mano dell’esercito che ha decapitato i vertici del governo. Mentre militari e politici lottano per spartirsi gli introiti derivanti dal narcotraffico (la Guinea Bissau è il primo porto d’approdo della cocaina proveniente dal Sud America in Africa Occidentale) sono le organizzazioni internazionali e le Ong a fare le veci dello Stato. E non sempre questo ruolo lo svolgono bene. È il caso, per esempio, dell’Onu. Dalle stanze rinfrescate dall’aria condizionata, in un paese nel quale, per lo più, la corrente elettrica non esiste, l’Unodc (United Nations Office on Drug and Crime) ha in mano la riforma del sistema carcerario del paese. Nessuno del dipartimento ha però mai messo piede nella cella di detenzione di Gabú. Hanno invece inaugurato in pompa magna nel giugno 2011 due nuove carceri, a Bafata e Mansoa, per la ristrutturazione delle quali l’Onu, per mezzo dell’Unodc, ha investito circa 900 mila dollari. Le celle sono più spaziose, le condizioni igieniche decisamente migliori, l’aria respirabile. Ma i tecnici si siano dimenticati di due elementi di certo non marginali: il pozzo ed il generatore. 900 mila dollari di ristrutturazione e, sia a Bafata che a Mansoa, i detenuti non hanno acqua né luce. «Se ne sarebbe dovuto occupare il governo» dicono dall’Unodc. «Ãˆ compito dell’Onu» rispondono dal ministero dell’Interno. In questo gioco di rimpalli di responsabilità i detenuti continuano, a Bafata, ad entrare ed uscire dal carcere per andare a riempire da un vicino i secchi d’acqua, mentre a Mansoa un’autobotte proveniente dalla capitale Bissau, distante circa 80 chilometri, porta l’acqua necessaria per una settimana, in un quantitativo che difficilmente dura oltre i due giorni. A cercare di tamponare le falle di questo sistema ci stanno provando due cooperanti torinesi, Fabio Iannuzzelli dell’ong Mani Tese, Matteo Ghiglione di Engim, ed un padre francescano, Michael Daniels. Parlano con i detenuti, offrono loro sia assistenza giuridica che sanitaria. Perché l’Onu, oltre ad aver dimenticato pozzi e generatori, non ha nemmeno previsto un servizio di cure mediche. Dopo il golpe del 12 aprile lo Stato, che già prima latitava, ora è inesistente. Processi bloccati, razioni di cibo terminate, e condizioni igieniche sempre più insopportabili. La giustizia è paralizzata, i militari continuano a procedere con gli arresti e i detenuti ad essere stipati in celle sempre più sovraffollate. Violenze sulle donne e pestaggi sono poi all’ordine del giorno nelle carceri. «Di notte le guardie bevono come delle spugne, si ubriacano e diventano violente – dice a bassa voce Chigozie, 27enne nigeriano dietro le sbarre a Mansoa –. A me hanno spezzato un dito l’altro giorno, lo vedi? Guarda come è storto, non riesco a piegarlo, e nessuno mi ha visitato. Una donna è stata picchiata, denudata e violentata in mezzo al cortile una sera. Non possiamo fare nulla, siamo bestie nelle mani di una giustizia che non funziona». Una giustizia che non funziona nella periferia del paese, così come nel suo centro, nella capitale Bissau. Qui la Secunda Esquadra, una delle strutture di detenzione temporanea, potrebbe essere tranquillamente il set di un film dell’orrore. La puzza di urina è talmente forte da far girare la testa, l’umidità, appena varcata la porta d’ingresso arrugginita, incolla i vestiti alla pelle. In una cella in pieno sole dieci persone sono accovacciate per terra. Sono debilitate, non hanno nemmeno la forza di alzarsi in piedi. Chiedono l’aiuto di un medico, di un infermiere. Sanno che non ce l’avranno mai. Hanno sete, ma di acqua, per loro, nemmeno una goccia. Un ragazzo, che dice di avere quindici anni, sta seduto all’ombra. Il viso da bambino, le mani di chi ha iniziato molto presto a lavorare. Dice che non dovrebbe trovarsi qui, che la sua è una detenzione irregolare, che a quindici anni non si può stare dietro le sbarre. Nessuno lo ascolta. Nella Secunda Esquadra ci sono malati gravi, che andrebbero curati d’urgenza. Brahima è pieno di schegge di vetro nella schiena, la ferita è infetta e la cicatrice spessa tre dita. Come cura lo hanno pestato per bene, così da farlo tacere. E mentre la Guinea-Bissau vive da oltre un mese e mezzo in un limbo, senza un governo riconosciuto dalla comunità internazionale e con la maggior parte delle scuole e delle attività industriali bloccate, dietro le sbarre, a Mansoa, Bafata, Bissau e Gabú, l’inferno sembra non avere mai fine. (La Stampa 5 Giugno 2012)

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