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In aumento il numero dei giornalisti uccisi: 66 nel 2011 
Stretta sui blog: solo quest'anno 199 arresti, 
una cifra in costante crescita in ogni parte del mondo 

Tra nuvole soffici di polvere gialla e gli scatti frenetici dei fotografi che consegnano alla storia le immagini d’una lunga guerra senza vincitori, poche ore fa gli ultimi soldati americani hanno attraversato il deserto che dall’Iraq porta al Kuwait. Un’altra guerra finisce, senza finire, e si lascia alle spalle più di 100 mila morti, soprattutto civili; sono morti anche 4.000 soldati Usa (la differenza dei due numeri dice che, nelle guerre di oggi, a morire è soprattutto la gente qualunque, quella senza nome sul giornale). Sono morti anche 51 giornalisti, reporter d’ogni Paese con accredito ufficiale, ma in realtà è di 250 il conto totale dei media-people ammazzati, se si aggiungono anche coloro che stando sul campo rendono possibile il lavoro dei reporter: gli interpreti, gli stringer, gli autisti locali. I morti delle guerre sono un saldo sempre amaro, che non ha bandiere. E se le guerre di oggi ammazzano più civili che soldati, ormai non fa gran notizia la morte anche di un giornalista. Quella notte del 20 aprile di quest’anno, Tim Hetherington stava sbarcando sul molo del porto di Misurata: Tim era uno dei più noti fotoreporter di guerra, lavorava per il «New York Times», aveva anche sfiorato l’Oscar con un suo documentario; era alto, magro, gli zigomi duri della genìa inglese, e aveva accanto a sé Chris Hondros, che era un altro fotoreporter di razza, in corsa per il Pulitzer. Ci salutammo con un abbraccio, rientravo a Bengasi dopo una durissima settimana nella città assediata e invece loro cominciavano ora il loro reportage. Nell’aria buia del porto senza luci le cannonate riempivano il silenzio. Tim chiese: «Ma quanto è dura? Si rischia alto?». Sono domande che si fanno, in questo lavoro, l’esperienza è un ferro del mestiere. «Sì, certo, si rischia, i colpi di mortaio cadono a tappeto; se hai sfiga ti finisce male». Il pomeriggio del 21, poche ore dopo il suo sbarco, a Tim finì male, e anche a Chris. Il mattino seguente quella loro morte fu una notizia di non molte righe, il conto dei giornalisti ammazzati si fa solo a fine anno. «Reporter sans frontières» pubblica oggi il rendiconto del 2011: con Tim e Chris, i giornalisti ammazzati quest’anno sono stati 66, in aumento del 16% rispetto al 2010. 3003 sono stati arrestati, bastonati, feriti, minacciati di violenza; 71 sono stati rapiti, 73 sono stati costretti a fuggire dai loro Paesi. Nella guerra di Libia, da febbraio a oggi, sono stati uccisi 5 giornalisti, di 20 è il conto totale della Primavera araba, ma il Paese più violento resta il Pakistan con 10 giornalisti ammazzati. L’organizzazione americana Cpj mette in conto numeri leggermente diversi, ma la differenza di una o due cifre non ha grandi significati: sta nella valutazione sullo status professionale, quello che resta è il bilancio pagato per consentire un giudizio costruito con la lettura testimoniale della realtà. La conoscenza, nel mondo d’oggi, è fatta per il 90 per cento dai flussi informativi del sistema mediatico, una mole gigantesca di news che passa nel nostro cervello dai giornali, dalle radio, dagli schermi della tv, da dentro la pancia dei computer che raccontano la Rete. Spesso senza filtro critico. E allora sta ai giornalisti esserne strumento consapevole. I giornalisti non sono eroi, neanche quando muoiono; fanno un lavoro che ha una certa dose di rischio, che non è solo quello della cannonata che t’ammazza, ma sta nella natura d’un impegno che non dovrebbe piegarsi ad accomodamenti o paure. Anche la mafia ammazza i giornalisti, anche i «cartelli» della droga lo fanno, anche il fondamentalismo islamico; e ogni potere che venga «disturbato», criminale o civile che sia, tenta di rivalersi contro il giornalismo, con la censura, i condizionamenti, le ritorsioni, la galera. Questa «guerra» contro la verità segue da presso l’evoluzione della tecnologia della conoscenza: nel 2011 sono stati arrestati 199 bloggers, un numero che ogni anno cresce, dalla Cina all’Iran, senza frontiere

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