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MARIO ZOTTA, UN COSTITUENTE LUCANO

Nato a Pietragalla nel 1904 fu uomo politico e grande giurista
                                                  
Tra i padri della Costituzione italiana può essere annoverato a ragione il lucano Mario Zotta il quale diede un importante contributo ai lavori dell’Assemblea Costituente. Nato a Pietragalla il 6 novembre 1904, fu politico e giurista. Nel 1946 venne eletto deputato alla Costituente nel Gruppo Democratico Cristiano con 19.596 preferenze.
Nell’Assemblea Costituente intervenne molte volte sulle problematiche della famiglia, riguardanti gli artt. 23, 24 e 25 del progetto di Costituzione, portando tutto il patrimonio delle sue convinzioni morali e religiose. Pur mantenendo spesso posizioni conservatrici, a lui si deve un notevole stimolo ad approfondire i temi cari alla tradizione cattolica. Così, occupandosi del tema dei figli illegittimi, pur riconoscendo l’esigenza di migliorarne la condizione (“perché la colpa dei genitori non ricada su chi non ha chiesto di venire al mondo”), si oppose ad ogni tentativo di parificare i figli naturali a quelli legittimi. Ciò avrebbe portato, secondo lui, per forza di cose, ad una introduzione dei primi all’interno del nucleo familiare, con conseguente distruzione della famiglia stessa. Meglio sarebbe stato spostare l’attenzione sulle provvidenze e sul miglioramento delle condizioni dei figli illegittimi, incominciando, per esempio, ad occuparsi dei figli naturali, non adulterini e non incestuosi, sancendo obblighi morali e patrimoniali da parte dei genitori. Ma fare tutto questo era compito del Codice civile non della Costituzione. Ma, al di là di alcune battaglie di retroguardia, Zotta seppe portare nel dibattito costituzionale la sua esperienza di giurista cattolico, intrisa del personalismo cristiano e della dottrina del diritto naturale riconosciuta dalla Chiesa. Egli, parlando dei diritti della famiglia, affermò a più riprese che compito della Repubblica e del suo ordinamento giuridico era quello di tutelare un complesso di posizioni giuridiche che avevano radici profonde nella coscienza del popolo italiano, una rispondenza così immediata nell’animo umano, da collocarsi per la loro forza cogente sul medesimo livello di quei diritti primordiali e fondamentali della personalità umana come i diritti alla vita e alla libertà. E come questi, infatti, essi dovevano essere intangibili ed anteriori ad ogni legge positiva, “in quanto una qualsiasi violazione di essi” avrebbe comportato “offesa alla vita e alla libertà della famiglia” e,  per quella connessione che esisteva tra la famiglia e la società, avrebbe costituito “un attentato alla saldezza morale ed alla prosperità della Nazione”. Analizzando il concetto della famiglia come “società naturale”, egli si richiamò al principio della pluralità degli ordinamenti giuridici. La famiglia costituiva, dunque, una formazione sociale che possedeva “diritti anteriori alla legge positiva”, diritti che lo Stato doveva riconoscere e garantire. Era questa una teoria – egli precisava – che si contrapponeva a quella della “statualità del diritto” di Hegel e di Jellineck, trovando le sue radici profonde nella scuola francese con Duguit e Hauriou, ma soprattutto nel grande giurista italiano Santi Romano. Egli si oppose, poi, con successo all’art. 31 del progetto di Costituzione dove si comminava, addirittura, la sanzione della perdita dell’esercizio dei diritti politici nei confronti di chi non lavorava. A tale



proposito si chiese, giustamente, se lo “status” di lavoratore potesse avere effetti nell’ordinamento costituzionale, nel senso cioè che esso potesse costituire “un motivo di privilegio, di differenziazione tra i cittadini, una condizione per la partecipazione stessa alla vita politica della società”. Dopo aver dottamente citato Dante, costretto ad iscriversi alla Corporazione degli speziali per esercitare i diritti politici, osservò che, al di fuori delle Costituzioni russa e iugoslava (dove, peraltro, non era specificata la sanzione), l’Italia sarebbe stato il primo Paese ad introdurre una limitazione nella capacità civile a carico dell’individuo che non lavorava. Così facendo, lo status professionale avrebbe inciso sulla capacità giuridica del cittadino, finendo col violare i diritti primordiali della personalità umana. Profondo regionalista, Zotta si impegnò instancabilmente nella battaglia per l’istituzione delle Regioni, cercando di fugare dubbi e perplessità di molti suoi colleghi che paventavano un processo di disgregazione del territorio nazionale. Il decentramento e il potenziamento delle autonomie locali, in primis le regioni, portavano, secondo lui, due fondamentali vantaggi, l’identificazione del concetto di responsabilità e del concetto di interesse. Il primo consisteva nella possibilità di assicurare ad “una rilevante massa di interessi” una soddisfazione, non solo più sollecita, perché immediata, ma anche più opportuna e rispondente alle esigenze locali. Il secondo vantaggio risiedeva nella stessa semplificazione dell’azione dello Stato, pressato “dalla complicazione di congegni amministrativi ingombranti” che pesavano sul bilancio statale, mostrandosi “lenti e torpidi nella tutela degli interessi dei cittadini”. Un ulteriore vantaggio era, poi, rappresentato dalla possibilità di localizzare una parte notevole delle spese venendo deliberate da coloro al cui profitto erano destinate. Invece – osservava amaramente il deputato lucano – allora erano deliberate dallo Stato, spesso “senza una corrispondenza effettiva con le reali necessità, sotto l’azione di pressioni parlamentari dirette o indirette”. Ma un vantaggio non meno importante, anzi moralmente elevatissimo, era “quello di costituire, attraverso la cooperazione diretta dei cittadini, una palestra di educazione civica”, soddisfacendo così il sentimento di libertà del singolo ed affinando il senso di responsabilità, in modo da offrire al Paese “cittadini coscienti e responsabili”. Di fronte a coloro che temevano un allargamento delle differenze esistenti fra le diverse parti d’Italia Zotta difese il potenziamento della vita locale come antidoto al perpetuarsi dell’inferiorità di determinate zone. Il problema meridionale si sarebbe, dunque, risolto proprio ampliando la libertà locale, consentendo “attraverso una molla di emulazione” il raggiungimento di livelli più alti di progresso. Dopo l’esperienza in Assemblea Costituente Mario Zotta fu Senatore per il collegio di Potenza nel 1948 e nel 1953, Sottosegretario al Tesoro, prima nell’VIII governo De Gasperi (16 luglio 1953-2 agosto 1953), poi in quello presieduto da Giuseppe Pella (17 agosto 1953-5 gennaio 1954). Nel 1954 presiedette anche la Prima Commissione del Senato e, sempre nello stesso anno, fu Sottosegretario al Bilancio nel governo De Gasperi. Nel 1956 fu nominato Sottosegretario al Tesoro nel governo Pella e l’anno successivo fu Ministro senza portafoglio per la Riforma della Pubblica Amministrazione nel governo Zoli (19 maggio 1957-1 luglio 1958). Rieletto Senatore nel 1958 per il collegio di Potenza, fu nominato in quello stesso anno deputato al Parlamento Europeo di Strasburgo. Componente di varie commissioni di studio giuridiche internazionali, fu anche Presidente di Sezione del Consiglio di Stato. Morì a Roma il 21 febbraio 1963.

                                                                
Michele Strazza

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