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Tibet: attivista in esilio si dà fuoco in India

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L’incontro del giornalista
rapito dai gheddafiani
con il ragazzo che lo ha protetto
DOMENICO QUIRICO
inviato a tripoli

Adesso, dopo il supermercato che appartenne alla figlia di Gheddafi (sembrano passati mille anni e sono solo sei mesi), incominciano anche le reminiscenze visibili. La strada che conduce all’aeroporto e serpeggia leggermente in dolce discesa è gonfia di auto.
Quel giorno Tripoli era vuota, l’ultimo segno del destino che gioca con te e poi sogghigna: bene, ti ho avvertito invano, ora ti agguanto. E poi c’è la caserma, l’immensa casa-fortezza-prigione del Colonnello che mi confonde. Perché quel 24 agosto il muro che la circondava era intatto e ora è rovina ciclopica data in pasto alle ruspe, come il suo padrone cadavere umiliato e sconvolto: le garitte sono buchi vuoti pieni solo di cielo, qui e là c’è ancora un pezzo di muro alto quanto un uomo, i margini segati, rosicchiati come dai morsi di roditori di grandezza sovrumana. Ora è svelata quella fortezza imprendibile e piena di segreti paurosi: spiazzi deserti, grigi, diseguali, hangar anneriti che hanno l’aspetto di tendoni sfatti di commedianti girovaghi, impronte chiare di stanze, corridoi, ingressi, tracce di immensi nidi simmetrici.

Eppure in alcuni spiazzi c’è già il verde nuovo dell’inverno, si vedono ramoscelli verdi tra le immondizie e i calcinacci. Si rivestono già della pace, hanno già dimenticato! Come è forte la vita! Non c’è più, come quel giorno, l’odore di guerra. Un odore di vecchio incendio e malta polverizzata, un marciume acre e dolciastro che il naso fiuta prima ancora di aver visto le devastazioni, che senti prima ancora di mettervi piede. Fa freddo, ha grandinato su Tripoli fino a formare una spanna bianca che sembra neve e la gente corre tra le palme con la sventatezza stupita di fanciulli a lanciarsi quella materia strana e gelata. Altro segno di un tempo memorabile.

Fino a questo punto riconoscevo e non riconoscevo Tripoli: il traffico luciferino, i portici gonfi di gente, i negozi, scatole esposte con loro, i venditori, vivi dentro al posto dei pick-up e dei guerrieri. Sono venuto a cercare i luoghi dove sono stato con tre colleghi, preso dai soldati di Gheddafi, a cercare i due ragazzi che allora ci hanno salvato. Giornata lunga, questa. Vale per mesi. Mi accorgo che non soltanto la città è cambiata, sono cambiato anche io, il mio sguardo è diventato un altro, vedevo nella città quello che prima non vedevo, quasi avessi traslocato da un piano all’altro della vita. Che consuma e rode.

Ecco: questo è il ponte da dove sono sbucati i miliziani e ci hanno risucchiati con sé, le armi in mano, oltre il canale. A Hergur: il libico che mi accompagna mi spiega che quello era un quartiere abitato da fedeli del vecchio regime, militari soprattutto. Le truppe del Colonnello sbrindellate, ormai sul punto di mollare la presa sulla città, vi si erano aggrappate come a una zattera. Oltre il ponte, il luogo in cui ci hanno tirato fuori dalla macchina e le grida gli spari la folla degli armati; e poi, cento metri più avanti, il punto dove Almadhi, il nostro autista, è stato assassinato e dove per l’ultima volta l’abbiamo visto, martire già abbracciato alla strada, al suo cubicolo di polvere. Ora c’è una immensa pozzanghera dove si specchia l’officina di un meccanico che esce a guardare, incuriosito.

Quell’acqua lurida e la curiosità dell’uomo mi sembrano una bestemmia, una profanazione. Mi sono spesso chiesto che cosa avrei provato, lì: ebbene è una immensa tristezza, non trovo, disgraziatamente, altra parola per definire un mancamento che non si può definire, una vera emorragia dell’anima.

Si attruppa un gruppo di ragazzi, tutti ricordano la storia dei «saafi», i giornalisti sequestrati, dell’uomo di Zentan ucciso, conoscono chi ci ha salvati. Ci addentriamo nel mazzo di case disordinato, che pare colto di fresco. Il paesaggio si apre da tutte le parti e un po’ al di là del torvo scivolare della strada gira su se stesso come la porta di un altro mondo: la casa dove siamo stati prima rinchiusi e poi salvati. C’è una simmetria tragica che mi lascia stupefatto. Davanti è parcheggiato il camioncino arrugginito su cui ci caricarono per portarci in salvo alle postazioni dei ribelli. Adesso il ricordo è un ferro rovente, è possente, vorace, quando vedo il portone verde e lo sgabuzzino in cui siamo stati rinchiusi per ore, ho creduto che stesse per divorami. Un branco di lupi, li avrei detti, i ricordi: il cortile con l’albero quieto, il rubinetto dove ci siamo lavati prima che spuntassero i miliziani che tornavano per la seconda volta a cercarci, perfino la gabbietta con l’uccellino che canta tenace.

Anche nella casa tutto è uguale, la stanza dove abbiamo dormito, il tappeto i materassi appoggiati ai muri, il grande armadio con incastonata la televisione. Mustafà, uno dei due ragazzi che ci hanno salvati, che è falegname, mi racconta di averlo costruito lui, e se lo sfoglia umile con lo sguardo dell’artigiano soddisfatto. Accendono subito la televisione, quasi fosse un segno di cortesia per l’ospite, come allora. Ma questa volta non trasmette i notiziari di Al Jazeera, scorre una telenovela. Il primo ad arrivare è Hassen, uno dei proprietari, i baffi che sembrano dipinti con il carboncino. Era alla moschea, ripete come se continuasse la preghiera: è stato il volere di Dio, è stato il volere di Dio.

Mi raccontano che l’uomo che ha ucciso l’autista, l’uomo che ci voleva morti, si chiama Naji. Era uno di qui, di Hergur. I suoi quattro fratelli, infervorati di Gheddafi come lui, li avevano ammazzati i rivoluzionari, uno dopo l’altro. Lo muoveva un odio igneo, dunque, la febbre di vendicarsi su tutto e su tutti. È fuggito, scomparso da quel giorno fatale. Mohassen, che lavora in una azienda petrolifera, non c’è, ho davanti solo Mustafà, l’uomo che mi ha salvato la vita, la barba leggermente più folta, la stessa timidezza impaziente. Ci abbracciamo: comprendo come la riconoscenza possa scoppiare tra due esseri con quella bruschezza, quella violenza che le persone del mondo riconoscono solo alla rivelazione dell’amore. Mi racconta, quello che io non so ancora: che lui e Mohassen erano due antenne dei rivoluzionari in questo quartiere gheddafista, accorsi alla notizia degli stranieri catturati per fare qualcosa; e le bugie astute, che un figlio del Colonnello aveva ordinato di custodirci, che avrebbero provveduto loro a eliminarci, con cui placarono e dirottarono la furia di Naij: «Nella caserma dove stavano per portarvi abbiamo trovato sessanta cadaveri». E lo dice senza enfasi, come parlando di storie lontane. Sì, l’eroismo che consiste nel fuggire l’eroismo. Entro la loro capacità e il loro cerchio questi due ragazzi hanno mosso le onde del mondo. Fuori, improvvise, esplodono raffiche di mitraglia. Mustafà sorride: «Nella caserma le nuove reclute si addestrano e provano le armi. Adesso tutto è finito». (La Stampa 10 Febbraio 2012)

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