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Nel girone infernale tra letti incollati, malanni e dignità calpestate

Scandalizzati per quello che è successo? Per niente. Stupefatti, questo sì, ma dall’indignazione di quei due ingenui parlamentari che hanno avuto un sussulto quando hanno visto una donna in coma parcheggiata da quattro giorni in barella nella «piazzetta» del pronto soccorso in attesa di trovare un letto vero in reparto. Sarebbe probabilmente sbagliato accusare i medici e gli infermieri del Policlinico Umberto I di scarsa professionalità. A sentirli, però, si capisce che la condizione di perenne «stato di guerra» in cui operano li ha ormai desensibilizzati, come anestetizzati davanti alla sofferenza di chi, oltre che alle cure, avrebbe diritto a un’assistenza umana e dignitosa. L’emergenza, in un pronto soccorso fra i più grandi e affollati di Roma, per loro è diventata routine. «Si sa che negli ospedali non c’è posto. Noi al pronto soccorso curiamo la gente al meglio e dobbiamo tenere i pazienti in attesa che i reparti possano accoglierli. Non possiamo fare altro», commenta il direttore del Dea Claudio Mondini.
«Ma che si aspettavano, i senatori? Di entrare in un ospedale svizzero? Non lo sapevano che mancano i letti, che i reparti scoppiano, che i pazienti devono ritenersi fortunati se possono stendersi su una barella? Chi l’ha smantellata, la sanità pubblica, se non i politici?», si domanda una dottoressa giovane e minuta mentre lancia un’occhiata verso un uomo che mostra a un infermiere il display del suo notebook: è inglese, nessuno lo capisce, così si affida al traduttore simultaneo di Google per spiegare che alla moglie fa male un piede dopo una brutta caduta sulle scale della Metro. Manca un interprete, o meglio il «mediatore culturale» come viene definito con involontaria comicità dai protocolli ospedalieri. Ma il pronto soccorso del policlinico è un inferno, altro che «mediatori culturali».

I tempi di attesa per il ricovero in reparto sono biblici: dalle quattro ore (eventualità assai remota) ai quattro giorni. «Ma può succedere che un paziente resti in parcheggio da noi per cinque, sei giorni», spiega un infermiere. Usa proprio quella parola, «parcheggio». D’altro canto perché dovrebbe sceglierne una diversa, visto che il girone dantesco in cui gli ammalati piombano oltre le porte automatiche con i vetri sporchi si chiama «piazzetta»? La «piazzetta» non è altro che un open space, una vasta stanza dove la privacy e il rispetto per la dignità di chi soffre sono quotidianamente sacrificati in nome dell’emergenza. Le barelle sono sistemate su due file al centro del locale. E qui che il paziente approda dopo che gli è stato assegnato il codice di «triage» per indicare la gravità del caso: bianco, verde, giallo, rosso. Le barelle dovrebbero essere otto, ma solo sulla carta.
La norma è che ce ne siano una ventina, come hanno constatato i senatori Marino e Gramazio, ma capita che ne vengano ammassate fino a 35. «Si aspetta lì in attesa del trasferimento nel reparto giusto, ma spesso ci vogliono giorni durante i quali il paziente soffre per la malattia che lo affligge, ma anche per la dignità che gli viene sottratta», commenta Giuseppe Scaramuzza, segretario per il Lazio di «Cittadinanza attiva - Tribunale per i diritto del malato».

Fra i lettini stretti e spesso privi di sponde non ci sono separè, i materassi sono praticamente «incollati» l’uno accanto all’altro. Il risultato è la promiscuità assoluta, donne accanto a uomini, malati che si lamentano al fianco di pazienti che dovrebbero riposare, anziani non autosufficienti che spesso vengono aiutati dai familiari di altri degenti in attesa dell’arrivo di un infermiere che tarda perché impegnato in un’altra emergenza.«È come se fossimo costantemente in guerra», sospira un paramedico, che ha trovato il tempo di fumare una sigaretta nell’area di parcheggio delle ambulanza che vanno e vengono senza sosta. E che racconta come «in fondo avere un posto nella “piazzetta” sia un colpo di fortuna, perché può anche capitare che non ci siano più barelle disponibili». In quel caso c’è un’altra stanza, molto più piccola, dove al paziente «sfortunato» non resta che arrangiarsi su una sedia in attesa di una visita che chissà quando arriverà.  (La Stampa 21 Febbraio 2012)

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