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La matematica del ripudio del debito




L'ultimo reportage di Marie Colvin dalla Siria: "Homs come Srebrenica"

C’è stato un boato assordante. Improvviso. Le pareti hanno cominciato a tremare, mentre i proiettili e le granate hanno sfondato le fragili barriere di cemento e cartongesso. Il soffitto è crollato. La terra ha risucchiato il pavimento lasciando il posto a un cratere lunare. I corpi di Marie Colvin, da oltre vent’anni inviata di guerra del londinese Sunday Times, e del fotografo francese Remi Ochlik, 28 anni, premiato con il World Press Photo per i servizi realizzati durante la rivoluzione libica e venduti a Le Monde, a Time Magazine e al Wall Street Journal, erano confusi in mezzo al fango, coperti dai detriti. Grigi. Irriconoscibili. Fatti a pezzi dalle schegge, mangiati dal fuoco. Anche Edith Bouvier, giornalista di «Le Figaro», è rimasta gravemente ferita. L’appartamento di Homs, nel distretto di Baba Amr, utilizzato come improbabile centro stampa dai pochi inviati riusciti a eludere l’accerchiamento dell’esercito regolare siriano, è sparito per sempre, mangiandosi ogni cosa. Un orlo nero, poi il nulla, come un foglio di carta bruciato da una candela. Secondo Reporters Sans Frontieres erano i media stranieri l’obiettivo dell’assalto. Damasco nega: «Non sapevamo neppure che fossero in città». Immediate le proteste di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. E’ la guerra che chiama altra guerra.

Marie Colvin, 55 anni, americana di nascita, era la giornalista più nota del Regno Unito. Secondo John Wihterow, il suo direttore, «la più coraggiosa». Aveva raccontato la guerra in Iraq e in Cecenia, l’intifada in Palestina. La chiamavano «Maria lo scoop». Lei si arrabbiava. «Conta le gente, non io». Nel 2001, in Sri Lanka, una granata le aveva portato via un occhio. Così indossava una benda da pirata. «Me ne basta uno per raccontare il delirio del mondo». Il suo ultimo servizio lo aveva inviato domenica. E ventiquattro ore prima di morire si era collegata con la CNN e con la BBC. «Non ho mai visto una repressione così feroce. La popolazione vive nel terrore del massacro». Aveva raccontato che tra le sei e le nove del mattino c’erano stati quattordici bombardamenti. E che nell’appartamento-clinica di fianco al loro il flusso di civili era continuo. Era lì che aveva visto morire un bambino di tre anni con aveva giocato a palla. Una pallottola gli ha bucato un polmone. «Il medico lo ha guardato e ha detto solo: non posso fare niente». Il piccolo era andato a cercare la sua palla in un posto in cui nessuno potrà aiutarlo a riprenderla.

Marie Colvin era convinta che Bashar al Assad avesse deciso di ammazzare i ventottomila abitanti del distretto di Baba Amr uno a uno per il loro appoggio all’Esercito di Liberazione Siriana. «E’ come Srebrenica. Da due settimane i bombardamenti sono quotidiani. Perché la comunità internazionale lo consente?».

A Homs era arrivata da pochi giorni. Di notte. Era passata per una strada nota solo ai contrabbandieri. «Mi hanno fatto giurare di non rivelarla a nessuno», ha scritto nel pezzo di domenica. Ha scavalcato i muri e dormito nelle trincee, poi è arrivata nel «rifugio delle vedove». Una cantina stipata di donne in lacrime. Madri giovanissime. «In città è rimasto solo un po’ di riso, del tea e qualche scatoletta di tonno. Nessuno ricorda un inverno più freddo di questo. La dimensione della tragedia è immane. Ogni famiglia ha perso almeno una persona amata». Le ultime ore le ha trascorse a parlare con la gente della clinica dove i morti sono più numerosi dei vivi. Le sembrava che i cadaveri puntassero verso il soffitto sguardi di uccelli che marciscono. Lei prendeva appunti, Remi scattava le sue foto. «C’è orrore dappertutto. Perchè il pianeta tace?"

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