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"Dal mondo arabo una svolta e' la rivoluzione dei diritti'' Il rapporto Amnesty: ma la via verso la giustizia resta lunga

il caso FRANCESCA PACI ROMA Novantotto Paesi dediti alla tortura, 54 avvezzi a processi iniqui, 89 nemici della liberta' d'espressione, 23 macchiatisi della pena capitale: come sempre il rapporto di Amnesty International non e' la piu' confortevole delle letture, testimone com'e' delle peggiori violazioni e delle piu' feroci crudelta' commesse regolarmente in ben 157 nazioni. Quest'anno pero', mezzo secolo dopo la nascita della rispettata organizzazione non governativa, tra i condannati a morte e i reclusi a vita s'intravede uno spiraglio. Sebbene ancora in divenire, l'ormai celebre primavera araba aggiunge una nota di colore al cupo censimento della violenza inserendo se non proprio un nuovo capitolo nella storia politica mediorientale e nordafricana quantomeno l'incipit di una svolta. «La rivoluzione dei diritti umani e' vicina» annuncia il portavoce di Amnesty RICCARDO NOURY. Il tono ottimista e' insolito ma deciso: «Le rivolte del mondo arabo hanno avviato un cambiamento, il primo passo per superare le dittature e' sempre cacciare il dittatore. E' dalla fine degli Anni 80 che non vediamo tanti despoti con le ore contate, la paura ha contagiato perfino la Cina». Se servisse una conferma, Pechino, dove il regime «assolda blogger filogovernativi per reprimere gli attivisti», ha appena messo al bando il gelsomino, temibile fiore simbolo della primavera tunisina. Certo la conquista di uno standard globale medio-alto e' in alto mare. La liberta' d'espressione, precisa il presidente della sezione italiana di Amnesty Christine Weise, e' minacciata a 360 gradi: «I governi di Libia, Siria, Yemen e Bahrein hanno mostrato l'intenzione di picchiare, malmenare e uccidere per poter restare al potere. Governi repressivi, come quelli di Azerbaigian, Cina e Iran, stanno cercando di impedire una rivoluzione del genere». Per non parlare delle condanne a morte: lo scorso anno il boia ha lavorato intensamente in ben 5 Paesi in piu' rispetto al 2009 e le condanne a morte sono passate da quota 56 a quota 67. Tra esecuzioni e imbavagliamenti, due terzi della popolazione mondiale non ha tutele legali a causa del sistema giudiziario corrotto, discriminatorio o addirittura inesistente. «Non tutto va bene neppure nei Paesi da cui arrivano i segnali piu' incoraggianti come la Tunisia; anche quando cadono le dittature c'e' bisogno di tempo per cambiare le leggi, le prassi, le abitudini» spiega ancora RICCARDO NOURY. L'Egitto di piazza Tahrir, per esempio, e' ben lungi dal mantenere le promesse del 25 gennaio: «Ci sono luci e ombre. Non tutti i detenuti delle prigioni di Mubarak sono stati ancora rilasciati e poi c'e' la storia degli arresti dell'8 marzo, quando, a poche settimane dal crollo del regime, numerose manifestanti furono fermate e sottoposte dall'esercito all'orrendo test di verginita'». Le donne continuano a essere la cartina di tornasole delle violazioni del diritto. Nei Paesi civilmente piu' arretrati, dove vengono sistematicamente ostacolate nella partecipazione sociale ma anche nell'illuminista Europa, che risulta abbia compiuto un discreto passo indietro per quanto riguarda il rispetto degli immigrati e delle musulmane velate. Eppure almeno c'e' Internet. I dati e le proiezioni di Amnesty confermano che la diffusione dei social media offre l'opportunita' di un cambiamento favorevole ai diritti umani. A condizione di tenere gli occhi aperti. Sul fronte delle nuove tecnologie, avverte Christine Weise, «e' in corso una battaglia cruciale per il controllo dell'accesso all'informazione, dei mezzi di comunicazione e della rete». Vale a dire che il web e' uno strumento per gli attivisti ma anche per le dittature come dimostra il caso della Siria dove a ridosso del trionfo della rivoluzione egiziana il presidente sdogano' il fino allora bandito Facebook per controllare meglio i dissidenti. Il bicchiere alla fine e' per una volta mezzo pieno. L'immagine isolata del ragazzo cinese che sfida il tank in piazza Tienanmen e' oggi una sequenza ininterrotta. Il boia e' ancora troppo popolare in troppi Paesi. Ma, chiosa Amnesty, «il genio e' uscito dalla bottiglia e le forze della repressione non lo ricacceranno dentro». (La Stampa 13 Maggio 2011)

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