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Protesta sulla torre della stazione Centrale di Milano




I governi e l'eterna chimera
delle riforme all'italiana
Bicamerali, inciuci, finte promesse: il rito del tirare a campare
Certo, come no, le riforme.

A volte ritornano. Una preghiera, un auspicio, l’eterno mantra dei governi traballanti, degli scenari inconcludenti, dei personaggi periclitanti. Il governo Berlusconi sale al Quirinale e promette «riforme». L’alleato Bossi intima «dobbiamo iniziare una stagione di riforme». Il ministro («per le riforme») Roberto Calderoli sente che è ontologicamente la sua ora, e a ogni giornalista consegna la bozza, ovviamente «segreta», con i 32 articoli «di riforma» sul taglio del 47 per cento di parlamentari e il Senato federale, «una riforma storica». Si sprecano aggettivi. Si aboliscono condizionali. Spariscono le ipotetiche: le riforme saranno - finalmente, presto, abbiamo tanto atteso ma ci siamo - realtà.

Forse però più che le grancasse sarebbe meglio procurarsi gli amuleti. Di solito ogni volta che s’è rispolverato il fantasma delle riforme accadeva perché i governi stavano per cadere, e provavano a resistere; gli alleati studiavano l’imboscata; le opposizioni trasversali sondavano intese, sempre e comunque da realizzarsi a babbo morto. «Il processo riformatore - spiegava anni fa un uomo d’antico corso come Nicola Mancino - ha le sue regole fatte di lentezza e di pause». E fantasmi, mirabilie, invenzioni, chimere, dilazioni, illazioni, quando non smaccati espedienti per tirare a campare. In Italia si evocano riforme, costituzionali ma non solo, almeno dal ‘79 (cominciò Craxi con un articolo a suo modo storico, «Ottava legislatura», sull’ Avanti ), e da allora si son viste quattrocommissioni bicamerali o comitati, innumerevoli sbandieramenti di presidenti del Consiglio, improponibili progetti di capi delle opposizioni: nulla che sia mai andato a segno.

Non è come nel Gattopardo , cambiar tutto per non cambiar nulla. È oltre: dire di cambiar tutto per potere nonostante tutto (credere di) esistere. Che c’è di meglio delle riforme (preferibilmente costituzionali, due anni almeno di iter) per darsi un compito, un alibi, una ragione? Ma spesso anche per assicurare una sontuosa eutanasia (della serie «lavoriamo per la storia»). Nel luglio del ‘99 la smania bicamerale di riforme aveva il chiaro senso di stabilire un trait d’union tra le Botteghe Oscure di D’Alema e il Cavaliere, tagliando fuori Palazzo Chigi dove sedeva Romano Prodi? Il Professore chiosò: è quello «Speedy Gonzales di D’Alema», per sfottere la grande fretta pidiessina di annunciare riforme dialogando con Berlusconi. Non erano bastati due anni a produrre un topolino, eppure ci fu chi promise: «Faremo tutto in 35 ore». Bum.

Non fu poi del tutto diverso l’amore per le riforme profuso nell’aere a inizio 2008. «Non si fanno le riforme senza Silvio», spiegò il fondatore del Pd Veltroni; «ringrazio Walter per i toni», rispose civettuolo il premier. Finì che si davano del «bugiardo» o del «comunista», ma nel frattempo il governo Prodi era stato sciaguratamente affossato. Potere delle riforme. Nell’ultimo raduno a Pontida la Lega ha fantasticato su tremila riforme, dallo statuto dei lavoratori a una decina di riforme costituzionali e qualche manciata di federalismi... ne parlano dal ‘94, cominciò a vaticinarle Gianfranco Miglio: «Questo sarà il governo delle prime riforme», disse. E Bossi: «Riforme saranno, federali e liberali». Sì sì, nemmeno cinque mesi dopo Umberto toglieva l’appoggio al premier. Il ribaltone.

E insomma, evocate per durare, sarebbero forse da scongiurare. Nel marzo 2006, quando stava per concludersi non gloriosamente il suo secondo governo, Silvio fece uscire sul Giornale un gustosissimo libretto intitolato “Tutto quello che ha fatto il governo Berlusconi e tutto quello che farà il governo Berlusconi”. Seguiva elenco di «trentasei riforme che hanno cambiato la vita degli italiani», dove le prime tre risultavano la legge Biagi, la riforma del fisco e quella delle pensioni, ma era palese che il succo dell’operazione stava in quel «farà», non nell’asfittico «ha fatto». Il passato ci deprime, il futuro ci esalta, millantando un’impossibile salvezza. È estrema unzione, però. Due mesi dopo, il governo delle riforme «fatte e da fare» andava mestamente a casa. «Quando non si vuol decidere nulla si parla di riforme, o si fa una Bicamerale», diceva Bettino Craxi. Era uno del ramo. (La Stampa 20 Luglio 2011)

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