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Francesco Cerabona

Nato ad Aliano venne eletto per la prima volta  deputato nel 1919



 Francesco Cerabona nacque ad Aliano il 9 dicembre 1882. Laureatosi in Giurisprudenza, si gettò nella professione forense, diventando uno dei più famosi penalisti del Foro napoletano. 
Nel 1919 venne eletto deputato, con 21.194 preferenze, nella lista lucana “Unione democratica”, avente come  contrassegno un orologio con le sfere che segnavano le ore 12,00.
Caduto il fascismo, rientrò nell’agone politico con la formazione politica “Democrazia del lavoro”, partecipando al primo congresso dei comitati di liberazione tenuto a Bari il 28-29 gennaio 1944.
In seguito prese parte ai lavori della Consulta Nazionale. Ricoprì l’incarico di Ministro delle Comunicazioni nel II Governo Badoglio (22.04.1944-08.06.1944) e quello di Ministro dei Trasporti nel II Governo Bonomi (12.12.1944-19.06.1945). Nella I Legislatura repubblicana rappresentò alla Camera il collegio di Potenza per il Partito Socialista Italiano. Fu componente dell’VIII Commissione (Trasporti) dal 23 marzo 1949 al 1° luglio 1950, della III Commissione (Giustizia) dal 1° luglio 1950 al 24 giugno 1953, nonché della Commissione Speciale per la ratifica dei Decreti Legislativi emanati nel periodo della Costituente dall’11 maggio 1949 al 24 giugno 1953. Fu anche Senatore. Numerosi i suoi interventi nelle aule parlamentari. Il 19 dicembre 1949 alla Camera tuonò contro il comportamento della polizia nei fatti di Montescaglioso durante i quali era stato ucciso un contadino inerme, “caduto mentre chiedeva pane e lavoro”. Egli stigmatizzò il “sistema generale seguito dal Governo di difendere le violenze della polizia”, il che significava “volere la violenza” perché, se da parte del Governo stesso “una volta sola fosse venuta una parola di verità”, evidentemente la polizia avrebbe saputo che non era lecito “sparare sui cittadini”. Dopo aver spiegato che la folla, scesa in piazza a protestare contro gli arresti ingiusti eseguiti nel cuore della notte, non era affatto armata, il deputato lucano si chiese se era veramente questo il sistema che il Governo voleva intraprendere: “Si vuole forse opporre il mitra alla volontà dei contadini, ma si sbaglia, ché nessun mitra potrà mai distoglierli dall’azione perché essi hanno coscienza di battersi per la tutela dei loro diritti”. Profondamente contrario all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, il 24 giugno 1950 tenne in Aula un accorato discorso in difesa degli interessi del Mezzogiorno contro iniziative demagogiche e irrisorie. La Cassa non avrebbe contribuito ad affrontare la questione meridionale, né a trovarne una soluzione. Secondo tale impostazione governativa – puntualizzava – il problema meridionale sarebbe consistito “soltanto in una somministrazione di denaro per opere pubbliche”. Il problema, invece, sarebbe dovuto essere visto come lo era stato “da studiosi eminenti” e come era stato dibattuto all’epoca della legge Zanardelli del 1904: “non problema di interventi per risolvere una decente vita civile, ma problemi per risolvere la vita economica e politica di intere regioni”. Con tale intervento normativo del Governo non si risolveva la questione meridionale, ma si veniva solo a dare “ancora un po’ di elemosina al Mezzogiorno” che, per la sua povertà, si pensava al Governo, avrebbe fatto “come lo schiavo” che, avendo preso sempre “scudisciate”, si sarebbe abbassato a baciare “la mano del padrone” quella volta che ne avesse ricevuto “per avventura” una qualche carezza. Più che istituire una Cassa per il Mezzogiorno, “ente mastodontico” con enormi costi e tanta burocrazia, ben si sarebbe fatto a concedere 1.000 miliardi direttamente per lavori pubblici nel Meridione.
Del resto tale somma era da considerarsi “una elemosina” per le esigenze del Sud. Ben altri miliardi ci sarebbero voluti soltanto per rinsaldare le pendici della Basilicata, eliminare tutti i pericoli derivanti dalle grandi frane esistenti, incanalare i fiumi che, dilagando, distruggevano le colture. A cosa sarebbe servito tale Cassa  se non “a dare nelle mani del Governo una forza accentratrice di miliardi, per potere ancora una volta asservire le province meridionali?”. Specificando di parlare “a nome della Basilicata, la più povera delle province d’Italia”. Cerabona concluse il suo appassionato intervento invitando “gli amici della maggioranza a fare una passeggiata in Basilicata”. Percorrendola, “un po’sul mulo, un po’sull’asino e un poco sull’automobile”, essi avrebbero visto la nascita di “una nuova gente”. Come aveva dimostrato il convegno delle assisi per la rinascita della Lucania, migliaia di contadini, di artigiani e di intellettuali erano pronti alla “resurrezione della loro regione”: “la Basilicata deve rinascere e rinascerà. Ed è così: lo sappia la maggioranza. Sono in cammino le forze del lavoro. La Basilicata rinascerà”. Dopo una lunga carriera politica e nel pieno di quella forense, Francesco Cerabona morì nell’aula della VIII Sezione Penale del Tribunale di Napoli il 26 luglio 1963. In quella stessa aula il 31 marzo 1967, alla presenza del Ministro della Giustizia, venne apposta la seguente lapide: “IN QUESTA AULA FRANCESCO CERABONA AVVOLTO NELLA TOGA IN UN SOGNO DI GIUSTIZIA TRASVOLO’ NELL’INFINITO”.
                                                            
Michele Strazza

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