Quanno ncielo
n'angiulillo / nun fa chello c'ha da fà, / 'o Signore int'a na cella / scura
scura 'o fa nzerrà.
Sono le prime parole che sussurra ad un registratore non
appena appare in scena il monaco bianco, il certosino invitato ad un summit dei
Paesi più ricchi del mondo in una lussuosa residenza in Pomerania. E’ Roberto
Salus, l’autore di libri filosofici, che ama registrare il canto degli uccelli
e il soffio del vento, e che incide come un preludio e profetizza l’andamento
della storia con questo verso del poeta napoletano Ferdinando Russo.
Si apre
così l’ultimo film di Roberto Andò, Le confessioni, e a far reggere per
intero la necessaria riflessione sul potere dei massimi sistemi, il regista
siciliano (amico di Sciascia e di Pinter) si avvale ancora una volta del
magnifico Toni Servillo, come già tre anni fa in “Viva la libertà”. Qui siamo in una Germania “pallida madre”
moderna, in un lussuoso residence dove sta per riunirsi un G8 dei ministri
dell'economia convocato per adottare una manovra segreta che avrà conseguenze probabilmente
nefaste per alcuni Paesi. A convocarli è il direttore del Fondo Monetario
Internazionale (FMI) Daniel Roché (l’eccellente Daniel Auteuil) che,
stravolgendo il protocollo, invita anche una celebre scrittrice di libri per
bambini, una rock star (che si limita ad intonare alla chitarra un pezzo di Lou
Reed) e un monaco italiano, Roberto Salus, appunto. Il summit si tinge presto
di giallo, con la morte del direttore del FMI, accidentale o provocata (non
sarà difficile intuirla), che indurrà nel contesto un clima di dubbio e di
paura. I ministri (fra essi c’è anche quello italiano, interpretato da
Pierfrancesco Favino) risentono di quella insicurezza ed inadeguatezza che
lascia annichiliti sul concetto di Potere; mentre con il monaco ingaggiano una
sfida sempre più serrata intorno ai supposti segreti che Roché avrebbe
rilasciato nella confessione al monaco. I ministri sospettano infatti che
Salus, attraverso la confessione di uno di loro, sia riuscito a sapere della
terribile manovra che stanno per varare, e lo sollecitano in tutti i modi a
dire quello che sa. Ed è qui che va citata la “hitchcockiana” concezione
dell’”Io confesso” (del 1953), con quel bagaglio di fede e silenzi. Il silenzio
proprio dei certosini, (messo in luce peraltro in un grande film di alcuni anni
fa dal tedesco Philip Groning) che fa delle poche parole di Salus un continuo
epiteto e talvolta una quieta invettiva al Potere. “Io sono per la pietà, l’unico
fronte su cui valga la pena combattere” suggerisce nella confessione privata al
capo del Fondo Monetario; è un dialogo illuminante il loro sulla vita e la
morte, la economia e la miseria.
Le
confessioni di Sant’Agostino appaiono il lontano richiamo ad una esistenza
morigerata fatta di misericordia e solidarietà, che stride con quel lusso che
riconduce nel resort di “Youth” (di Sorrentino: stessa luce fredda e bagni
notturni in piscina).
Il
film di Andò è dunque per certi aspetti "necessario" in questo tempo
sbandato; lascia tuttavia sospesi: se buone sono le intenzioni, il film nel
complesso appare pretenzioso; non diciamo presuntuoso però, perché l'arte
(cinematografica) deve voler superare il contingente. Sospeso dunque fra
surreale e "didattico", fra fede metafisica utopie e quel capitalismo
ottuso che avalla ogni cosa e determina l'esistenza di ciascuno e di tutti.
Eppure è difficile determinare quanto autocompiacimento ci sia
nei dialoghi (talvolta aforistici) mentre l’omelia finale di Salus riporta a
quello che vibrava nel brioso “Viva la libertà”. Infine, un cenno alle musiche:
cadenzate quelle composte da Nicola Piovani, mentre sulla scelta di Schubert,
Andò parla di "una sorta di reperto che allude alla deriva di un’anima e,
al contempo, al naufragio di una certa idea d’Europa, Un’idea che nel suo
capolavoro Schubert aveva ampiamente profetizzato".