“Ritaglia la mano
orante / dall’aria / con la forbice degli occhi…/ Fanno restare senza fiato, /
oggi / le mani giunte.”
Gli antichi dicevano che pregare è respirare. E’ evidente
quanto sia sciocco voler parlare di un “perché”. Perché io respiro? Perché
altrimenti morirei. Così con la preghiera. Era Kierkegaard ad annotare queste
righe nel suo diario. Il cardinale Martini dedicò una delle sue Cattedre dei
non credenti proprio alla preghiera. Si, anche il laico talora, invoca, come
faceva Caproni: “Dio Onnipotente cerca, a
furia di insistere, almeno di esistere.” Rimane, comunque, lo stupore
davanti alle mani giunte, elevate nell’aria, fuori della palude della
chiacchiera e del vociare, come confessava Paul Celan nei versi iniziali.
Perché - era Wittegenstein a dirlo - “pregare
è pensare al senso della vita”.
Le ore della Passione ispirano quel segno di preghiera, che
talvolta la tradizione ha reso replicante e inusuale litania, ma che si staglia
nella memoria collettiva dei cristiani, come sofferenza, espiazione, forza
contenuta. La preghiera, dunque, che si può respirare e replicare anche nelle
visioni e nei gesti quotidiani.
Su una stradina di campagna. Ai bordi, alcuni fondi ben
coltivati. In uno di essi, una coppia di anziani contadini, intenti a
raccogliere quanto la terra sta fruttando in questo periodo. E’ un sollievo
vederli intenti e sereni nella loro beata consuetudine: il raccolto come
sintesi finale di una preghiera, al cospetto della “disciplina della terra” cha
da tempo immemore offre loro. Figure genuine di contadini, fierezza ed amore ad
un tempo. In loro la preghiera si fa frutto; nella loro gentilezza e nella
generosità si compie infine il miracolo definitivo di una fede che va oltre la
religiosità. Guardarli è come tenere le mani giunte.
Atto secondo: nella villa comunale, passeggia una coppia
abbracciata, che da lontano sembra di fidanzati. Invece, mentre si avvicinano,
sono una madre un figlio: lui è giovane, con il viso delineato da sindrome di Down. E la mamma gli sussurra,
con voce flebile, “che bella cosa jè na
jurnata ‘e sole”. Il ragazzo sorride, sereno, felice. La fierezza e l’amore
ad un tempo. Osservarli in queste brevi sequenze è come ambire al divino, alla
gentilezza, alla solidarietà; è come tenere le mani giunte.
Altra scena: il ricordo di una nonna, alcuni anni fa, che prima
di spirare, ha raccontato che un giovane era andato sulla porta di casa a
salutarla. Era suo nipote, morto a pochi anni di età per una grave malattia, ma
nel ricordo della nonna il bambino era ormai cresciuto, fino ad essere quel
giovane che con l’ultimo saluto, l’avrebbe portata con se. Ancora una
preghiera, ancora mani giunte. E un senso di fede, seppure “la religione – secondo il filosofo Vattimo –
è un’abitudine infantile che ti porti dentro” . Eppure, in tutte queste scene
c’è l’abitudine infantile di guardare al mondo, quello dell’innocenza. E che
traspare proprio nel profondo di una religiosità che matura nel profondo, nella
Passione e nella sofferenza; nel Risorto di una primavera di campi fioriti.