L’’Unità d’Italia, da Fortunato a Vancini e i Taviani
Durante le
celebrazioni dell’Unità d’Italia, partite dallo scoglio garibaldino di Quarto,
poteva apparire fuori dal coro quanto scritto da Giustino Fortunato in una
lettera indirizzata allo storico e politico napoletano Pasquale Villari, datata
2 settembre 1899. Questo è lo spirito che animava lo studioso, ma anche il
meridionalista e il politico, originario di Rionero:
Se si legge nelle parole di Fortunato un aspetto puramente economico, si può rivedere la Storia mediante l’assunto da più parti acclarato che, con la nascita dell’Italia Unita, l’attivo di bilancio del Regno delle Due Sicilie fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano. Finiranno così al Nord (e non solo) somme esorbitanti pari a 443 milioni di moneta corrente dell’epoca, mentre le banche degli altri Stati preunitari detenevano un patrimonio totale di 148 milioni. Ma non era, quella di Fortunato, una invettiva di carattere puramente economico. Profetizzava il divario che l’Unità non avrebbe mai risolto, una “questione meridionale” che avrebbe permeato e condizionato la vita politica e sociale del Paese.
Nessuna
antinomia dal Fortunato va oggi indotta nell’impegno del presidente della
Repubblica, Napolitano, impegnato su più fronti a contrastare spinte
secessioniste, incentivando uno spirito di coesione nazionale. Spirito che il
Presidente aveva riaffermato proprio nel Palazzo Fortunato di Rionero,
nell’ottobre del 2010. Varrebbe la pena, tuttavia, ricordare a quanti la storia la leggono
opportunisticamente dalla parte “sbagliata”, quante risorse ha destinato il Sud
alla costruzione della nazione. In termini di braccia, di sangue, di soprusi,
di abbandoni (“o briganti o emigranti”). Brigantaggio ed emigrazione, i due
cardini drammatici di una storia che vede il Sud teatro di dolore, di sconfitte
ma anche di passioni.
L’epopea
di Garibaldi, che ha affascinato intere generazioni di studenti (più alle medie,
meno ai licei), continua a rappresentare tutt’oggi il nodo della discordia, una
rielaborazione che andrebbe invece contestualizzata nel tempo storico. L’eroe dei due mondi – confermano
taluni studiosi - era visto dal popolo come un santo liberatore. A Palermo era
considerato “parente” di Santa Rosa così come a Napoli lo divenne di San
Gennaro; in una stampa popolare era addirittura raffigurato con un gesto
benedicente. In un calendario del 1863 era elevato alla gloria degli altari, il
busto-reliquiario con tanto di aureola posto su un altare fra baionette,
cannoni e munizioni al posto dei ceri. L’epigrafe era vero manifesto
dell’anticlericalismo: “figli d’Italia, se asciugar volete / di Venezia e di
Roma il lungo pianto / poco v’importi se non canta il prete / queste son le
candele, questo è il santo.
Scriveva
Beniamino Placido che se avessero avuto la meglio i Borboni, probabilmente Eroe
nazionale sarebbe stato considerato Carmine Crocco, il brigante per eccellenza;
con i Piemontesi invece lo è diventato Garibaldi. Una equazione apparentemente
azzardata, ma le vicende postunitarie, rilette nel tempo da letteratura e
cinema, hanno riscritto quello che la storia ufficiale non insegnava.
Florestano Vancini girò nel 1972 “Bronte – cronaca di un massacro che i libri
di storia non hanno raccontato”. Il film elenca una
folta bibliografia, da Colajanni a Mack Smith, da Romano a Candeloro – scriveva
il critico Tullio Kezic - sui fatti che si svolsero fra il 3 e il 10 agosto
1860 a Bronte, un paese sulle falde dell’Etna: la forsennata rivolta delle
plebi contadine e l’inesorabile repressione che seguì per mano dei garibaldini
di Nino Bixio. Scrive Renzo Del Carria in Proletari senza rivoluzione: “È da
questo feroce episodio, inumano nella sua spietata logica di lotta di classe,
con il suo cosciente terrore contadino prima e reazionario poi, che ha inizio
la storia delle classi subalterne in Italia”. Con il film prodotto dalla Rai,
ma mai mandato in onda, il regista ferrarese porta sullo schermo una novella di
Giovanni Verga dal titolo “Libertà”. E lo stesso faranno i fratelli Taviani,
nel 1984, girando “Kaos” che traggono dalle Novelle per un anno di Luigi
Pirandello. Un episodio in particolare, “L’altro figlio”, guarda al passaggio
di Garibaldi dalla Sicilia: Carrobbardo,
come lo chiama la vecchia protagonista, è una creatura eterea, una icona sul
suo cavallo bianco che, anziché restituire dignità ai contadini, li ignora.
Tanti
libri, dibattiti e documentari hanno alimentato una riflessione necessaria, ma
deve essere un recupero culturale del secolo e mezzo alle spalle a
riequilibrare gli interessi comuni di una nazione che sappia far tesoro della
Storia.