RISPOSTE NELLA TEMPESTA
di Vittorio Baccelli
di Vittorio Baccelli
È vicina l’ora, s’è spaccata
la Luna.
(Sura 54-1)
(Sura 54-1)
Un piccolo rumore, un piccolo tonfo. L’ombra taglia il
selciato come solo le ombre sanno fare nelle notti d’inverno, quando la Luna fa
dimenticare l’oscurità. Separa il più cupo dal meno cupo, attraversa,
piegandosi e comprimendosi, gradini di marmo, pilastri e capitelli d’una
vecchia costruzione per giungere fino ai bordi della fantasia.
C’è una vecchia dalla pelle incartapecorita e
diafana che si scalda al fuoco malaticcio di un po’ di spazzatura ed evita con
cura i suoi riflessi verdognoli e violacei, quasi facendosi lama tra le vampe
di fumo maleodoranti. Lucilla sorride a lei che mostra un lontano ricordo della
sua dentatura. La vecchia s’inchina e le indica il luogo ove giacere, non
troppo discosto dal fuoco. Tiene in mano un mazzo di carte dal dorso bianco e
s’offre per leggerle il passato, proprio a lei che un passato non ha.
Sicuramente non ha neppure ciò che lei cerca. Riprende a serpeggiare qua e la
un poco più stanca di prima inseguita dalle maledizioni sputate da quella bocca
infame. Passa attraverso il sogno d’un bimbo, le speranze d’una giovane, le
delusioni dell’adulto, i ricordi d’una vecchia, ma in nulla riesce a scorgere
ciò che vuole. Giunge in un luogo senza tempo ove sono accatastate montagne
d’oggetti alla rinfusa…qualche bambola, promesse in quantità, immagini
presenti, denaro, parole e bimbi dagli occhi chiari e profondi…si fa in
coriandoli d’oscurità perlata per evitare il contatto con l’irrealizzato e
l’irrealizzabile e, in fondo, con l’angoscia…ma neppure questo è quello che
cerca. Trova un catino colmo d’acqua fresca che rivela un volto candido e
disegni assolutamente irreali, percepisce un richiamo e tutto il suo peso…ma
neppure questo la soddisfa. Solo quell’acqua…Trova infine un libro con un’unica
pagina…la verità che cercava…forse…uno specchio. La sua immagine riverberata
tremula sulla superficie riflettente, è liquida, guarda allora più attentamente
e una nuova realtà prende forma mentre intorno a lei una tempesta d’incredibile
violenza all’improvviso si scatena nel luogo ove lei si trova. Si rannicchia in
posizione fetale, ha il libro aperto sull’unica pagina riflettente e lo guarda
fisso mentre è illuminata dalle saette. È presa dalle immagini riflesse, ne è
risucchiata, è in piedi. Si toglie la tuta spaziale, lo sbarco è riuscito ma le
comunicazioni si sono interrotte dopo il violento atterraggio. La superficie
riflettente è svanita, non è più neppure un ricordo, c’è solo questa nuova realtà
che la circonda. Lentamente si avvia,
giunge al margine di quello che ritiene essere il bosco più cupo che abbia mai
visto, una strana voglia di sedersi la prende per attendere che accada
qualcosa. Ma non può farlo, sa che esistono severi regolamenti che lo vietano.
Ma l’impulso di sedersi e attendere è troppo forte, alfine vinta da quell’idea
prende molto tempo nella ricerca d’un luogo idoneo, da dove si possa scorgere,
in un sol tempo, la selva e le montagne, i prati e le nuvole. Ma lì non c’è il
bosco, niente montagne o prati o nuvole. Così cerca di crearli lei, dipingendo
con la fantasia, e ciò le ruba parte delle sue forze e ancora altro tempo. Ha
indosso solo una leggera tuta: si toglie tutto quello che ha nelle tasche, cioè
tutto ciò che possiede, una razione di sopravvivenza, un laccio e una piccola
pietra con dei riflessi luminosi come quelli d’una lama di puro acciaio. Si
mette allora ad aspettare, ma non sa cosa…pensa ad una vecchia con la pelle
incartapecorita, ad un piccolo fuoco fatto con la spazzatura, ad un mazzo di
carte con il dorso bianco…ricordi con poco senso che non riesce ad assemblare e
che sicuramente non portano da alcuna parte. Si dà allora da fare per
immaginare che cosa può accadere: nulla! Non può accadere nulla di nulla, o meglio
non riesce ad immaginare alcunché. Che cosa può mai succedere a qualcuno che se
ne sta seduto dinanzi ad un bosco, che di così cupi non se ne sono mai
visti, con il panorama di montagne
immaginarie ornate da nuvole tanto belle che sembrano il parto d’una fertile
fantasia che ha morbidezza di quell’erba, che a quanto le risulta può anche non
esistere…nulla! E lei non ha nulla da obiettare. A dir il vero, tranne il
laccio, il cibo che ora si sta sbocconcellando e la pietra dai riflessi strani,
non ha proprio nulla di nulla! Si accinge quindi ad attendere il nulla che
potrebbe accadere. C’era una vecchia, un libro che rifletteva come le acque
d’uno stagno, un mazzo di carte e una tempesta. Doveva esserci pure
un’astronave da qualche parte, ma tutto questo erano ormai vecchie storie.
Lucilla s’è lasciata ogni cosa dietro le spalle, cose non più raggiungibili,
non più concrete, forse mai state reali. Si concentra quindi sul nulla che può
ancora accadere. Pensa che questo “qualcosa” che può giungere – comincia a
pensare ad un “qualcosa” e non più ad un
nulla perché non riesce a concentrarsi su di un nulla che non è neppure
successo ancora – può anche esser capace di cambiare il colore alle “sue”
nuvole, alle montagne e perfino a render duro come la pietra il suo improvvisato giaciglio (ma è quello
che le aveva indicato la vecchia? – quale vecchia?). Non può esser più sicura
di niente. A dire il vero tutto è iniziato così. Qualche cosa cambia di posto e
il colore delle nuvole…non se n’erano mai viste di così cupe…qualcosa rende le
cime delle montagne sempre più aguzze e il prato sempre più freddo e duro. La
cosa non sembra piacerle affatto. Ma lei non può cambiare le cose, visto che è
lì per attendere proprio tutto ciò! Le nubi si sono fatte così basse da fondersi
in un tutt’uno con il prato fattosi di pietra e di freddo, e lei inizia ad
avvertire la fatica nel respiro. Istantaneamente s’accorge, o pensa
d’accorgersi, che il vento s’è levato. Là tutto accade proprio così. Comincia
con lo scuotere le cime degli alberi che prendono subito dopo a cigolare. Prima
scompostamente poi sempre più dolorosamente, fino a costringerla a mettersi le mani sulle orecchie. Comprende
allora che il “qualcosa” è cominciato e che non può esser fermato in alcun
modo. Cerca di sforzare la sua fantasia ma non riesce a creare che dei serpenti, rettili d’ogni
specie, e poi insetti e volti con nulla di umano. Tenta di pensare alla luce,
ma in quelle nuvole non c’è la luce. Mentre una tempesta sembra sia proprio sul
punto d’esplodere, la foresta intanto comincia a risucchiare tutto ciò che può
contenere e raggiungere. Per non fare quella fine lei si lega a un masso con il
legaccio che, con la pietra costituisce ora tutto ciò che possiede. Ancorata a
terra e sollevata a mezz’aria dalla furia degli elementi s’accinge ad aspettare
che qualcosa continui ad accadere. Ma non “accade” più “qualcosa”. Dal buio che
ha preso il sopravvento, si leva una folgore luminosissima e si scaglia verso
quello che prima era il cielo. Saetta roteando su se stessa e punta veloce come
nulla verso la pietra che lei stringe in mano. Ma anche in questo istante non
può che pensare che se qualcosa accade, accade semplicemente perché nulla può
impedire alla fantasia di concederlo.
“…dio mio, non è possibile!”
“anche il Mariner 12 ha
perso i contatti dopo esser entrato nell’atmosfera…è ormai certo che non ci
vogliono proprio…”
“Ok! Fatemi gli
auguri…sveglierò il Presidente per informarlo…”
Queste frasi
prive d’alcun senso attraversano in un
attimo la mente di Lucilla che s’è ormai persa nel vortice della tempesta ed è
avvolta dalla scarica della saetta che ha colpito la pietra metallica che lei
tiene ancora in mano. È un vortice, lei è nel vortice, tutta la realtà si sta
avvolgendo in se stessa con lei come fulcro. Anche i suoi pensieri roteano
misti a frammenti di ricordi. L’universo sembra essersi spaccato, ha generato
una frattura e le forze degli elementi la stanno sospingendo all’interno della
fenditura. Si spezza il laccio e lei precipita all’interno della voragine. Veloce,
sempre più veloce. A una velocità così elevata che tutto resta indietro, la
foresta e anche i suoi ricordi. Ma quali
ricordi? Se lei neppure prima riusciva a ricordare e avvertiva solo una svolta
paurosa nel suo passato. E di colpo un alt! Una stasi. Si è fermata. Il suo
precipitare è terminato. Giace sulla sabbia con gli occhi chiusi. Li apre a
fatica molto, molto lentamente: indossa una tunica bianca. Un sole allo zenit
l’abbaglia. Si alza in piedi, è scalza. Si guarda intorno: sabbia, dune di sabbia
rossicce, qualche pietra spunta dal terreno, cespugli rotolanti sono lentamente
sospinti da un vento che stempera il calore di un sole… Un grande sole, molto
caldi i suoi raggi. Radi ciuffi d’erba spuntano da alcune montagnole di
pietrisco che sembra poggiato sulla sabbia. Silenzio, solo il leggero soffio
del vento e lo scricchiolio della sabbia sotto i suoi piedi. I cespugli
rotolanti scivolano sulla superficie di quella spiaggia senza mare, lentamente
descrivendo strane figure geometriche. Dei pali. Si scorgono in lontananza,
infissi nel terreno collegati tra loro da sottili fili a qualche metro
d’altezza. Lei li vede e li raggiunge. Segue l’interminabile fila dei pali che
si susseguono quasi il linea retta. Passo dopo passo lentamente avanza nella sabbia.
I cespugli rotolanti silenziosi in fila indiana lentamente la seguono. Più
avanti, molto più avanti c’è un grande arco in pietra. I fili coi loro pali passano sotto la sua
possente arcata. E nel mezzo all’arcata s’interrompono. Lei segue i pali e sempre
più s’avvicina all’arco: il sole è ancora allo zenit eppure molto tempo è
trascorso. Arriva proprio di fronte all’arco, solo allora s’avvede che i pali
coi loro fili s’interrompono proprio lì nel mezzo. Il fascio di fili sembra
come tagliato e i fili restano paralleli al terreno. Lei è perplessa, ma il
dubbio dura solo un attimo, decisa attraversa il portale. Adesso davanti a lei
i fili proseguono, dietro non c’è più niente solo il deserto, anche i cespugli
rotolanti sono scomparsi: solo ciminiere sbilenche s’intravedono in lontananza.
Da dove partono (o arrivano) i fili si scorge una città, no, sono grandi cupole
traslucide. Però sembrerebbe proprio una città: lei ne è convinta. Il sole
adesso s’è spostato sulla sinistra e i suoi raggi sono meno infuocati di prima,
è anche più piccolo e il colore della sua luce è leggermente mutato. Avanza
fiduciosa verso le cupole, è una città, ne è sicura. Lentamente segue i pali e
i fili, la città sembra ora proprio a due passi, si fa coraggio, vince la fame,
la sete e la stanchezza. Vuol raggiungere quella meta, vuole sciogliere mille
interrogativi. All’improvviso tutto s’oscura, nubi minacciose scagliano saette
ovunque, pioggia e grandine s’abbattono su di lei. Una tempesta d’una forza mai
vista. Si rannicchia contro il terreno, in posizione fetale, appena protetta da
uno sperone di roccia. Dopo un tempo incalcolabile la tempesta cessa così
all’improvviso com’era cominciata. È notte. Si rialza lentamente. Cerca
d’orientarsi, di rimettersi in cammino verso la città. Un piccolo rumore. Un
piccolo tonfo. L’ombra taglia il selciato come solo le ombre sanno fare nelle
notti d’inverno. Non riesce a scorgere le cupole e neppure i pali coi loro
fili. Solo l’ombra separa il più cupo dal meno cupo, attraversa piegandosi e
comprimendosi, gradini di marmo, pilastri e capitelli d’una vecchia costruzione
e giunge fino ai bordi della fantasia. C'è una vecchia dalla pelle
incartapecorita e diafana che si scalda al fuoco malaticcio di un po’ di
spazzatura ed evita con cura i suoi riflessi verdognoli e violacei, quasi
facendosi lama tra le vampe di fumo maleodorante…